2015 ~ Ladri Di VHS

66° Berlin International Film Festival

A Berlino dall'11 al 21 Febbraio 2016.

69° Festival de Cannes

A Cannes dall'11 al 22 Maggio 2016.

73° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica

A Venezia dal 31 Agosto al 10 Settembre 2016

domenica 13 dicembre 2015

VICTORIA


Regia: Sebastian Schipper
Origine: Germania
Anno: 2015
Durata: 140'
Attori principali: Laia Costa, Frederick Lau

Stamattina mi sono imbattuto quasi per caso in un commento rilasciato da Darren Aronofsky, colui che al netto di Noah dovrebbe essere qualcosa tipo uno dei miei registi preferiti o giù di lì.

 
“Victoria rocked my world"

Interessato a scoprire se l’arte della marchetta lo avesse distrutto completamente o se valga ancora la pena aspettarsi barlumi di intelligenza da parte sua ho recuperato il film in questione.


Durante il tragitto da faccio colazione a guardo un film scopro che Victoria è un unico piano sequenza da 140 minuti. “Ma un piano sequenza vero eh” ci tiene a precisare Schipper nell’intervista che leggo mentre sistemo la scrivania, “Abbiamo girato il film tre volte, il take che abbiamo tenuto è quello girato a Berlino dalle 4:30 alle 7:00 del 27 Aprile 2014”, minchia.


La storia è semplice. Una ragazza spagnola a Berlino dopo aver fatto serata in un club incontra quattro ragazzi che la coinvolgono in un cazzo di casino. Il classico film in cui il personaggio principale inanella una scelta sbagliata dopo l’altra e TU spettatore urli allo schermo insulti perché è ovvio ciò che succederà. Questa volta non così ovvio ma soprattutto non così ingiustificato come accade di solito.


La caratterizzazione dei personaggi è molto accurata. Victoria ci viene presentata come una ragazza insicura, in cerca della possibilità di costruire una vita sociale che non ha mai avuto. Una che probabilmente è fuggita da una città che le stava ormai troppo stretta e ha scelto di ripartire da Berlino. È tratteggiata da una malinconia che le si legge negli occhi nonostante l’aria spensierata, che si rabbuia in un attimo quando tenta di attaccare bottone col barista che non la caga di striscio.


Incontra quattro ragazzi del posto, un vortice di sfumature che va da un estremo all’altro. Sonne a un estremo, un po’ cazzaro ma gentile e Boxer all’altro, da subito irascibile e violento. In mezzo Fuss e Blinker, uno troppo strafatto e uno troppo esaltato.


Nella prima parte del film Victoria potrebbe in qualsiasi momento abbandonare la barca, salutare tutti e andare a prepararsi per aprire la caffetteria in cui lavora... Ma non lo fa. Inizialmente è lei a rincorrere gli eventi, quasi a non volerseli fare scappare, forse per noia, forse per solitudine. Man mano si avrà un’inversione di rotta e la sua capacità di sottrarsi agli eventi diventerà praticamente nulla fino a quando la sua partecipazione torna maledettamente attiva, fino al finale in cui diventa il direttore d’orchestra della melma in cui s’è addentrata.


Il fatto che sia completamente girato con camera in spalla permette alle immagini di adattarsi facilmente al ritmo del film. Dalle inquadrature precise e lente delle passeggiate per strada si passa a quelle frenetiche e poco precise degli inseguimenti. Il modo in cui inquadrature, colori e colonna sonora dialogano tra loro in certi punti potrebbe ricordare qualcosa di Refn ma non si tratta di un unico “filtro” adottato per tutto il tempo, è qualcosa che varia in base alle circostanze.


In conclusione, un film che vale davvero la pena recuperare. Non ci sono ancora date su una possibile release italiana ma non ha senso aspettare. Una spagnola e dei tedeschi che si esprimono in un inglese elementare e sgrammaticato, a volte aiutandosi a gesti, non serve che vengano doppiati.


Victoria ha avuto quattro candidature agli European Film Awards di quest’anno e non ha vinto un bel niente ed è un vero peccato.




Ingmar Bèrghem

domenica 29 novembre 2015

DHEEPAN


Regia: Jacques Audiard
Origine: Francia 
Anno: 2015 
Durata: 109'
Attori principali: Jesuthasan Antonythasan, Kalieaswari Srinivasan

L’ultima pellicola di Jacques Audiard, premiata nell’ultima edizione del Festival di Cannes con la Palma d’oro, entra di prepotenza tra le visioni più interessanti dell’anno cinematografico ancora in corso, merito del modo in cui vengono trattati argomenti piuttosto difficili da digerire, nel mondo multipolare e globalizzato che caratterizza la nostra società. Il protagonista di quest’opera, Dheepan, è parte attiva in una guerra civile che sta dissanguando lo Sri Lanka. L’unica via d’uscita è l’emigrazione in stati apparentemente più vivibili, ma per fare ciò ha bisogno di una sorta di lasciapassare. Ecco che perciò verrà accompagnato in questo viaggio da una donna e una bambina, due perfette sconosciute, che come lui hanno perso ormai tutto, e per garantirsi i documenti validi per espatriare e per vivere in un altro paese dovranno fingere di essere una famiglia. Arrivato in Francia, Dheepan diventerà il custode di una serie di palazzine situate in una periferia ormai abbandonata a se stessa. La convivenza in questo quartiere gestito di fatto dalla piccola criminalità organizzata metterà a dura prova la vita di queste tre personalità.


Audiard cerca di restituirci, tramite il suo sguardo, una condizione che mano a mano si fa sempre più asfissiante, optando per inquadrature in cui i personaggi sono sempre più schiacciati, spesso prigionieri di fessure che non lasciano tanta via di scampo, mentre nel quartiere il degrado imperversa col tacito assenso di tutta la comunità. Si sofferma poi, come ovvio che sia, sul rapporto che intercorre in questa famiglia improvvisata, riuscendo in maniera egregia a non scadere nel patetismo e nella retorica che un film del genere avrebbe potuto portare con sé, allargando il discorso sulla famiglia vista fondamentalmente come un nucleo artificiale che può però arrivare a scoprire i nervi dei componenti. Non a caso le scene più intense in questo contesto sono quelle dove le velleità di rendere questa famiglia vera, con tutto il bagaglio di sentimenti che la caratterizza, prendono il sopravvento. La ragazzina fuori dalla scuola che chiede alla madre di baciarla sulla guancia prima di entrare perché “tutte le altre mamme fanno così” è un’immagine molto potente e spiega bene questa volontà di affermarsi in maniera definitiva in un contesto familiare che sembrava ormai perduto per sempre. La riflessione del regista francese si muove in maniera frastornante, mettendo anche in discussione le promesse di una vita migliore che la Vecchia Europa ha da offrire a chi ha dovuto sopportare lutti, guerre e umiliazioni in altri paesi. Perché quella che trova Dheepan in Francia è una violenza più camaleontica, meno diretta e per questo più indecifrabile di quella che ha lasciato nella sua terra natia. Audiard gestisce in maniera impeccabile gli attori e gli spazi, con quest’ultimi che, come già detto, arrivano quasi a soffocare i protagonisti, affondando le mani in situazioni che aveva già avuto modo di scandagliare con “Il Profeta”, film che parla sostanzialmente delle stesse problematiche, in cui a farla da padroni sono gruppetti criminali che finiscono per condizionare la vita di persone estranee a certe logiche, le quali, come nel caso di Dheepan, si riscoprono capaci di azioni che pensavano appartenessero ormai al passato, un passato che torna sempre più prepotentemente a galla mettendo a dura prova una situazione già molto precaria. Adagiandosi su questa materia in bilico tra la speranza di una nuova vita e la disillusione che poi ne consegue, il cineasta francese si muove liberamente e a tratti quasi con un approccio neo-neorealista, insinuandosi in maniera rispettosa all’interno di questa famiglia e tenendo a mostrarci i tratti più umili e semplici di queste persone, grazie anche all’ottima prova dei protagonisti.


Nonostante la parte finale possa sembrare troppo rocambolesca, di fatto dà adito a quella stessa sensazione che pervade il film di stare a guardare un vaso pieno d’acqua che non può più resistere nemmeno all’urto di una piccola goccia. E quello che ne consegue è un fiume in piena che porterà Dheepan a fare i conti coi fantasmi del passato sanguinoso in Sri Lanka per poi cercare di traghettare la sua famiglia verso lidi più felici, con un guizzo d’autore che strizza l’occhio alla scena finale di uno dei capolavori di Michelangelo Antonioni. Un film quindi sicuramente da promuovere, che magari non segnerà questa stagione cinematografica ne’ quelle successive, ma che fa respirare l’idea di un cinema al tempo stesso solido e tenero, distaccato e magnetico, che dimostra di saper spaziare tra diversi registri senza minare però la coerenza e la credibilità della storia narrata, ma dandogli invece quel quid in più che rende la pellicola reale e d’impatto.


Martin Scortese

martedì 6 ottobre 2015

GOODNIGHT MOMMY

Regia: Veronika Franz, Severin Fiala
Origine: Austria
Anno: 2015
Durata: 99'
Attori protagonisti: Susanne WuestLukas SchwarzElias Schwarz

Dopo un'operazione di plastica facciale una madre torna bendata a casa dai figli. Lo stress post-operatorio è tanto e il suo carattere sembra risentirne. Troppo violente le punizioni date ai figli e troppo poco l'affetto e il tempo che la madre ritaglia per loro. Tanto che agli occhi dei figli la donna che si trova davanti loro non sembra affatto essere la madre. I due danno dunque vita a una ricerca della verità.


Il dubbio che chi ci sta accanto non sia chi crediamo è uno dei temi standard dei film dell'orrore (vedi i vampiri, zombie, fantasmi) e Goodnight Mommy improvvisa sul tema in modo eccellente. La frase "e se quella non fosse nostra madre?" è al centro della sceneggiatura, attorno stanno piccoli eventi che si infilano una volta nella casella del "sì è lei" e l'altra in quella "no non è lei". Più si va avanti nella ricerca della verità più il dubbio che neanche i bambini siano quello che noi crediamo cresce tanto che arrivati già a metà film non si sa da che parte stare. Questo è un bene perché le scene di tortura lavorano su più livelli nella nostra mente ripugnandoci fisicamente e mentalmente perché se è davvero difficile concepire il parricidio, ancora più arduo è  prenderne parte. Specie se non si sa dove schierarsi. Non c'è niente di paranormale (anche se alcuni furbi trick del duo Franz-Fiala potrebbero trarci in inganno) i mostri ce li abbiamo in testa e l'immaginazione di due bambini basta a fare di un bendaggio post-operazione chirurgica una maschera orrorifica. Bastano innocenti omissioni a mettere su un gigantesco complotto.



Goodnight Mommy è uscito a pochissima distanza da Babadook ma il suo essere diametralmente opposto al film della Kent sembra quasi rivelare delle intenzioni: la pazzia qua si muove in una casa austera sì, ma dall'architettura razionale e piena di luce. Sembra essersi creata da sola, su misura della madre. Con un arredamento studiato nei minimi particolari ma andando a togliere, offuscando indizi sul precedente aspetto della madre, sul suo lavoro e sulla vera composizione della famiglia. Il bianco e la natura la fanno da padrone, una casa uscita da un catalogo ma perché intenzionalmente il "vissuto" deve mancare. Bimbi "fastidiosi" non perché scassacazzo ma perché evidentemente disturbati, e una madre che ai mille dettagli dell' interpretazione di Essie Davis oppone addirittura una maschera, un bendaggio che non dovrebbe mettere paura, perché non concepito come travestimento (forse, perché su questo dubbio si basa il film). Bendaggio tanto riuscito e inquietante quanto banale l'uso che si fa del volto di Susanne Wuest una volta scoperto. E sopratutto la svolta finale così uguale a quella di Babadook (ma a personaggi invertiti) da far sorridere. Goodnight Mommy non è purtroppo un film perfetto. Trucchetti ingiustificatamente forvianti e un finale precipitoso e prevedibile non rendono giustizia al resto della pellicola e al modo delicato, naturale e onirico di farci cacare addosso.

   


Isaia Panduri

sabato 23 maggio 2015

YOUTH


Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia, Francia, Svizzera, UK
Anno: 2015
Durata: 118'
Attori protagonisti: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda

Fred e l'amico Mick si ritrovano in un centro benessere per persone ricche in Svizzera. Entrambi fanno i conti con la propria vecchiaia. Fred però, a differenza di Mick ha ancora voglia di gridare al mondo la propria arte. Ha voglia di dare un'ultima volta dimostrazione del proprio talento.


Il film come era prevedibile ha diviso la critica in modo netto. C'è chi usa parole come “fesseria” e chi “meraviglia”. La verità quando si tratta di un opera dalle scelte così radicali non può stare nel mezzo. La verità sta nella porzione di target nella quale noi persone meglio scegliamo di stare. Perché è ovvio che i produttori del film pensavano a un target ben preciso al quale possiamo tranquillamente non appartenere. Io, Isaia Panduri, non sono una di quelle persone che si diverte davanti a Bay, a Muccino, a Ozpetek e a questo film qua.


Vi spiego. Io voglio tanto bene a mio zio Gino, ma purtroppo lui è un fanatico delle lezioni di vita. Di qualsiasi cosa tu stia parlando lui è lì pronto a darti la sua preziosa opinione, a raccontarti un aneddoto in proposito; quella volta in cui si è comportato come si deve, quell'esempio di come le cose della vita vanno prese. Ogni sua frase inizia con, “Isaia, devi capire che nella vita...”. Io vorrei ogni giorno ricevere lezioni, ma non le voglio scolpite sul marmo. Non le voglio da chi si pone su di un piedistallo. Non le voglio sopratutto da gente che cosa ha più di me e di te che stai leggendo? (I soldi) Niente. Come dice Mick stesso.


Fred e Mick stanno nel centro benessere senza fare niente. Nessun personaggio della pellicola fa niente. L'unico che fa qualcosa è il monaco tibetano che cerca di levitare, e cosa fa? Niente. Fred ha una bellissima figlia che non fa niente, appena lasciata dal compagno (figlio di Mick) perché poco abile a letto. Questo ci viene solo detto (magari una scena della Weisz sotto le lenzuola!). Insomma in Youth si parla soltanto di cose fatte e di cose che si avrebbe o non si avrebbe voglia di fare. Si parla di rimpianti, tema scelto furbescamente in quanto nervo scoperto di ogni essere umano. Ma si toccano TUTTI i grandi temi. In caso qualcuno in sala non ne avesse di rimpianti. Se ne parla fino alla nausea attraverso aforismi, frasi ad effetto, citazioni altissime, dialoghi e monologhi che si vorrebbero intensi. E non è solo l'arroganza a dare fastidio, ma è l'incoerenza di molte affermazioni. Tutti hanno in almeno un dialogo il proprio momento di gloria, mantenere l'equilibrio tra le conversazioni “vinte” e “perse” da ogni personaggio è quello che conta davvero per Sorrentino.


Visivamente il film è straordinario. È un'infinita pubblicità di Dior, un infinito videoclip di Breath dei Telepopmusik. Se i protagonisti non svolgono nessuna azione gli altri che popolano il centro benessere DAVVERO non fanno niente. Non parlano, non respirano, non si muovono o si muovono stanchi o con movimenti automatici (in una scena una ragazza del personale del centro fa da tornello, fungendo da guida all'interno di un percorso banalissimo. I corpi nudi sono delle macchine in coda, con all'interno un pilota ormai incapace di condurre il proprio corpo anche attraverso i percorsi più semplici). Sono poco più che manichini, sono tutti vecchi o sgraziati o squallidi. La poetica della caducità delle cose nel nostro millennio potrebbe avere queste immagini (non originalissime magari, ma almeno parlano di qualcosa).


Si è sollevato in giro il tema del dualismo “forma & contenuto”. Per Lee Marshall in Youth “la forma è sostanza”. Ma cos'è la forma e cosa è la sostanza? Questo è un film ben scritto per il linguaggio forbito? Pensare a una serie infinita e sconnessa di frasi da Smemoranda senza mai occuparsi di inserirle in una narrazione (o di creare una narrazione) può chiamarsi scrivere? Ammettiamolo, una puttanata come “nella vita ho capito che esistono i belli e i brutti, nel mezzo ci stanno i carini” l'avremmo tollerata da Fabio Volo? La scrittura di un film ne costruisce la forma tanto quanto la regia, o no?


Le statuette dell'Accademy non sono quasi mai solo un premio al merito. Spesso si tratta di lanciare un personaggio, si tratta di capire bene su cosa investire. E Sorrentino sapeva d'essere solo carne da macello per i produttori americani. Non sappiamo quanto sia stato libero di agire e quanto venga dal cuore. Sappiamo però che quelli che erano considerati dalla critica più schizzinosa i difetti maggiori de La grande bellezza (l'eccessivo barocchismo e la verbosità. Elementi di disturbo presenti ma marginalissimi) sono ora le caratteristiche salienti di Youth. A noi l'arte su commissione piace, a noi di Ladri non interessa che il film sia 100% d'autore o particolarmente sentito da parte del regista. A noi interessano i bei film. E Youth è un film furbo, è una pellicola diretta da dio, come diretti da dio sono gli spot dei profumi e delle auto. Il fatto è che qua si vende solo fumo.






Isaia Panduri

giovedì 23 aprile 2015

MIA MADRE


Regia: Nanni Moretti
Origine: Italia, Francia
Anno: 2015
Durata: 106'
Attori protagonisti: Margherita Buy, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, John Turturro

Che vi piaccia o meno, Nanni Moretti è tornato. E pure in grande spolvero. Il suo dodicesimo lungometraggio, in concorso a Cannes quest’anno insieme ai nuovi di Garrone e Sorrentino, è una bella spina nel fianco, in senso positivo ovviamente. Eh sì, perché Moretti è riuscito a tirar su probabilmente uno dei suoi film più belli e toccanti. Un film che ti rimane addosso, ti abbandona e poi torna prepotentemente a farti riflettere. Per dire, tornato a casa dopo essermi gustato questo film al cinema la prima cosa che ho fatto, automatica, è stata quella di parlarne con mia madre, per poi abbracciarla. È anche questa la magia del cinema. La pellicola è incentrata sulla figura di Margherita (interpretata da una bravissima Margherita Buy), una regista in crisi d’identità, a cui il destino pare accanirsi contro: le riprese del suo nuovo film non vanno a gonfie vele, ha appena interrotto una relazione amorosa, ma soprattutto apprende che la madre, già in condizioni fisiche non eccellenti, è sul punto di morire. Verrà sostenuta in questa esperienza dal fratello, interpretato da Nanni Moretti.


Il Nanni nazionale in questo film decide di sdoppiarsi, perché se è vero che dà corpo al fratello di Margherita, è anche vero che il suo reale alter ego sullo schermo sia proprio Margherita. Un taglio ancora una volta autobiografico adottato dal regista romano, che qui si trova a fare i conti con i fantasmi di una mamma scomparsa e che ha significato molto per lui. È però questo stratagemma dello sdoppiamento a funzionare e a dare linfa al film, quasi volesse fare il grillo parlante di sé stesso, seguendo la sorella, confortandola, aiutandola nella cura della madre. Tutto ciò all’interno di un’atmosfera che oscilla sempre, e mai in maniera pesante, tra passato e presente, tra ricordi e l’attuale realtà molto amara. Giulia Lazzarini, grande attrice di teatro, interpreta in maniera impeccabile il ruolo della madre, a cui si inizia a voler bene già dal primo frame. Una madre con un passato da insegnante di latino che ora si diletta a fare ripetizioni a sua nipote. Da qui nascono anche riflessioni, come ovvio che sia, su cosa accada dopo la morte, o meglio cosa accada al bagaglio di esperienze accumulate fino a quel momento, agli anni di insegnamento della madre, ai libri conservati. A cosa accadrà a lei, a Margherita. 


Molto interessanti sono anche considerazioni sul cinema stesso, sui problemi in cui può imbattere una troupe, tra luci che non soddisfano e un attore americano vulcanico e smemorato (interpretato da uno straripante John Turturro), ma anche lui con i suoi scheletri nell’armadio; ma soprattutto il problema dell’accondiscendenza a priori di cui è vittima un regista, che arriverà alla conclusione che “il regista è uno stronzo a cui voi permettete di fare ogni cosa”, con una Margherita sull'orlo di una crisi di nervi. Scusate se è poco. Dal punto di vista tecnico questa pellicola è una delle più curate della filmografia morettiana, con una bellissima fotografia e una regia che si adagia quasi con rispetto sull’argomento trattato, e si vede proprio che è un tema che Moretti sente molto e che lo ha segnato. La morte è un argomento che fu sviscerato dal regista già ne “La Stanza del figlio”, in questa nuova pellicola però più che la morte in sé è analizzata la preparazione alla scomparsa di una persona cara e quali sono gli effetti sulla vita di tutti i giorni.


Preparatevi anche a piangere con questo film, che ha il gran merito però di non cercare la lacrimuccia facile. La lacrima arriva sempre nei momenti più profondi, dove bastano poche parole per far capire cosa voglia dire non accettare una situazione del genere. Le lacrime arrivano soprattuto alla fine del film a coronare un film davvero bellissimo; subito dopo in sala c’è silenzio da parte degli altri spettatori, io sono il primo a uscire perché la virilità maschile forgiata a immagine e somiglianza di Vin Diesel impone che non sia molto macho farsi vedere con gli occhi gonfi in pubblico. Salgo sul mio motorino e automatico il mio pensiero rimbalza dal finale di “Mia madre” alla scena di “Aprile” in cui Moretti viaggia sopra la sua Vespa con un metro sulla mano destra e misura la vita che gli resta. Proprio perché sono due scene che mettono in luce due modi simili di affrontare la vita. Perché accanirsi contro il presente, stare male, soffrire quando c’è comunque quella flebile speranza che ci permette di buttare tutte queste cose dietro alle spalle? Quella speranza chiamata “domani”.


Martin Scortese

venerdì 10 aprile 2015

FURIOUS 7


Regia: James Wan
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 140'
Attori principali: Paul Walker, Vin Diesel, Michelle Rodriguez, Jordana Brewster, Dwayne Johnson, Ludacris, Tyrese Gibson, Jason Statham, Kurt Russell

Chi vi scrive è uno che tra i pochi DVD acquistati e custoditi gelosamente ha il primo capitolo della saga, di cui conosce tutte le battute a memoria, che quando pensa a “film d’azione” pensa a Point Break, non perché ormai viene citato ogni due minuti quando si parla di F&F ma perché “Oh ma come si chiamava il film quello là coi surfisti con le maschere” mio padre me lo chiede in media una volta l’anno dal ’94.



Partiamo col dire una cosa, i film della saga di F&F non sono film per tutti. In genere quest’espressione viene riservata per film particolarmente impegnativi ma in questo caso è l’esatto contrario. Se da piccolo non hai sognato di guidare una Supra arancione con improbabili adesivi sulle fiancate, il piccolo tamarro che è in te non lo risvegli nemmeno con un bazooka-spara-airmax. Se invece sei uno a cui l’odore dell’olio di ricino fa un effetto simile a quello delle madeleine su Proust rievocando motorini elaborati, macchine elaborate, monopattini elaborati, lavatrici elaborate... Allora è molto probabile che anche tu sia affezionato a questa saga.


Il settimo capitolo, come tutti sapevamo, sarebbe stato per forza di cose singolare: Paul Walker, l’attore protagonista-mai-protagonista dell’intera saga, è morto quasi due anni fa a bordo di una Carrera GT. Vedere quindi un film con l’idea fissa che il protagonista a un certo punto tirerà inevitabilmente le cuoia non è esattamente il massimo. Ti impone uno stato di tensione che normalmente il film non riuscirebbe a raggiungere neanche pregando in sanscrito. Sono comunque piuttosto felice per il fatto che Brian O’Conner abbandoni in maniera dignitosa il micromondo che l’ha visto protagonista-mai-protagonista per quattordici anni.


Dopo Rob Cohen, John Singleton e Justin Lin (per quattro volte di fila) è arrivato il turno di James Wan alla regia. Tutti indignati. Tutti indignati perché un regista giovane e bravo che ha tirato fuori roba interessante ha accettato di prendere una barcata di soldi per girare un film dal successo assicurato con un budget enorme. Eggià, proprio uno stronzo.


Il risultato è facilmente prevedibile. A ogni capitolo della saga, il livello di esagerazione è andato via via crescendo sempre di più. Lasciatemelo dire, questa volta non riuscirete neanche a immaginare quanto. La saga di F&F si è evoluta passo dopo passo, partendo da un “Point Break con le macchine” fino ad arrivare a una specie di The Avengers. I personaggi non sono più uomini, sono supereroi (ricordatevi ciò che sto dicendo ogni volta che inquadreranno Dwayne Johnson aka The Rock) e quando fai un film coi supereroi prendi la realtà, la accartocci, ci fai due palleggi e la butti nel cesso. Guardare Dominic Toretto attraversare tre grattacieli a bordo di una macchina da tre milioni di euro non è un’esagerazione inverosimile, è una cosa fottutamente divertente, punto. E The Rock che abbatte un drone dotato di lanciamissili è cosa buona e giusta.


Il film risulta tecnicamente ben girato, il ritmo è elevatissimo tanto che 140 minuti scorrono senza accorgersene e c’è la solita commistione di generi che è stata introdotta coi capitoli precedenti: si ride, ci si gasa, si tenta di far scendere la lacrimuccia. Inevitabilmente chi è cresciuto con questa saga finirà per farselo piacere indipendentemente da tutto, chi la odia a prescindere probabilmente non cambierà idea. Da un punto di vista globale Fast & Furious 7 è probabilmente secondo solo ed esclusivamente al primo capitolo della saga, di cui risulta essere la degna conclusione. È già in lavorazione un ottavo capitolo per questioni puramente legate al franchising ma come avrete modo di rendervi conto, questa è l’unica e vera fine e va benissimo così.




Ingmar Bèrghem

lunedì 6 aprile 2015

BLACKHAT


Regia: Michael Mann
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 133'
Attori protagonisti: Chris Hemsworth, Tang Wei

Il buon Michael Mann è tornato ed è riuscito a mettermi nella spiacevole condizione di non sapere bene come trattare il suo ultimo film. In patria è stato massacrato e per ora il punto di pareggio per i 70 milioni di dollari di budget sembra essere irraggiungibile, è anche vero però che la critica non fu tanto gentile neanche con Public Enemies, che dopo un inizio indeciso fece il botto. Ho come il sentore però che il miracolo questa volta non si verificherà.



Blackhat è un action-cyber-thriller molto verosimile sotto certi punti di vista e totalmente inconsistente sotto altri aspetti che ruota intorno a un complotto internazionale da parte di un hacker, contro il quale interverrà l’NSA insieme al governo cinese con qualche comparsata da parte dell’MI6. È in questo contesto che scende in campo Nicholas Hathaway, Thor per intenderci, un hacker finito al gabbio per un impiego non esattamente etico delle sue capacità informatiche. La proposta è semplice: tu ci aiuti a beccare il tizio che sta facendo questo casino e noi ti facciamo uscire.



Diciamo quindi che la storia si presta a essere piuttosto banalotta e a ricordare anche troppo malamente certi film d’azione degli anni ’80 o ’90 col protagonista ipercazzuto, fortissimo, intelligentissimo e che rimorchia pure con una discreta nonchalance, cosa che cozza abbastanza pesantemente con la figura dell’hacker. D’accordo, non sono i brufoli o gli occhiali a farti creare una backdoor ma lasciate che io sia scettico nel vedere un hacker alto, biondo, con gli occhi azzurri, col pettorale da 120 kg di panca piana.



Dal punto di vista tecnico c’è veramente poco da criticare, com’è anche normale aspettarsi. Mann sa dirigere, il film è montato bene e la fotografia è sicuramente il punto forte. La sceneggiatura però risulta un po’ debole e soprattutto la storia sa di “già visto”. Un aspetto sicuramente positivo è però l’attenzione ai tecnicismi. Scordatevi hacker che comandano il tostapane col cellulare o che necessitano di “più potenza” per trovare una breccia in un sistema particolarmente protetto. Questo film fortunatamente prende le distanze in maniera netta da film come Hackers (da vedere solo per la Jolie) dove sembra che un’intrusione di sistema sia un livello di Pacman. Da un punto di vista pratico tutto ciò che viene mostrato è realmente possibile. È lodevole inoltre che pur senza avere grande dimestichezza con l’argomento credo si riesca a seguire tutto abbastanza facilmente.



In conclusione, Blackhat non è assolutamente da buttare ma lascia quel brutto retrogusto di occasione sprecata. Mann è riuscito a fare un film molto attuale nelle tematiche, senza prendersi neanche tante licenze cinematografiche su aspetti estremamente tecnici e non esattamente semplici da trattare. Purtroppo però il risultato è un film d’azione come tanti altri in cui il protagonista sa programmare, maneggiare armi da fuoco, fare a botte e mille altre cose che lo porteranno sempre e comunque a salvare il mondo dal cattivo di turno.




Ingmar Bèrghem

martedì 31 marzo 2015

FOXCATCHER


Regia: Bennett Miller
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 134'
Attori protagonisti: Steve Carell, Channing Tatum, Mark Ruffalo

Uscito questo mese nelle sale italiane con grande ritardo, Foxcatcher è uno dei migliori film del 2014, vincitore del premio alla regia nell’ultima edizione del Festival di Cannes ma snobbato pesantemente agli ultimi Oscar, quando probabilmente avrebbe meritato più di una statuetta. Il film narra le vicende realmente avvenute che hanno coinvolto due fratelli campioni olimpici, Mark e Dave Schultz, e John E. du Pont, con un epilogo che non sto qui a svelarvi. In primis bisogna dire che Bennett Miller è in assoluto uno dei registi americani con più talento in circolazione, un talento già espresso nei suoi due film precedenti, ovvero “Capote” e “Moneyball”. In questa sua ultima fatica riesce a sublimare il suo stile e a renderci partecipe di una vicenda solo apparentemente distaccata da noi, grazie anche a un uso più che mai funzionale di campi lunghi a dir poco glaciali, oppure optando per immagini e movimenti di macchina che rendono i soggetti inquadrati sfuggenti.


La tensione che si percepisce in questa pellicola è tale che si ha l’impressione che un niente possa far precipitare la situazione. Un film di certo fastidioso, perché qui il tanto declamato sogno americano ha la parvenza di un vero e proprio incubo, di un morbo che si impossessa dei protagonisti senza più lasciarli e spremendoli fino all’ultima goccia di sudore o fino all’ultima parvenza di razionalità. Le prove dei tre attori sono spettacolari; Channing Tatum esprime al meglio, tramite la sua fisicità soprattutto, la foga agonistica nel cercare di riuscire in competizioni sportive, la voglia di sacrificarsi ma anche la ricerca di una figura di riferimento che possa guidarlo. Mark Ruffalo si riconferma tra gli attori più sottovalutati della sua generazione, interpretando un fratello troppo vicino ma anche troppo distante, facendo da ago della bilancia a una situazione, per l’appunto, sempre precaria. Ma da elogiare ovviamente è anche la prova di Steve Carell, che grazie anche a un trucco impeccabile, compie la metamorfosi nei panni di John E. du Pont, un personaggio che si insinua misteriosamente nelle vite dei due fratelli, alla ricerca in questo caso di una figura da ammaestrare e da formare a proprio piacimento. Miller si concentra sul rapporto tra questi tre personaggi in maniera impeccabile, mostrando fatica, sudore, cadute, infamie e una certa dose di morbosità repressa, ma anche la volontà di distaccarsi in maniera definitiva da un passato troppo invadente. Du Pont, nel quadro generale, rappresenta più di tutti la crisi dei valori americani dell’epoca, contraddistinta da una facciata rassicurante, pulita, ottimista ma che solo a confronto con altre realtà umane in difficoltà mostra il suo vero volto. E l’unico modo per tentare di attuare una sorta di catarsi è lottare, gli unici luoghi sacri sono la palestra e il ring. Si sfocia in scene in cui andare al tappeto ed essere sconfitti è il solo modo per tentare di reagire a una vita che sfugge sempre di più fra le mani, e non è un caso che Jake La Motta, ad esempio, si facesse picchiare brutalmente in alcuni incontri per la scarsa considerazione che aveva di sé.


È un’America nera e che fa fatica a riconoscersi quella che mette in scena Miller, senza troppi giri di parole, ma più che altro facendo parlare le immagini, gli sguardi, il tutto amalgamato con musiche ad hoc e una fotografia impeccabile, all’interno di una cornice desolata e desolante. Un’America che perde le coordinate e non riesce più a dare priorità alle cose importanti; la famiglia e gli affetti sono subordinati alla voglia di imporsi sportivamente, ed è qui invece che il personaggio interpretato da Ruffalo pare rappresentare un punto di rottura decisivo. Le scene di lotta sono girate con maestria assoluta, così come una delle scene clou in cui c’è semplicemente Channing Tatum che pedala al massimo su una cyclette, per poi arrivare alla parte finale dove le parole si fanno rarefatte perché nulla può essere più pensato. Si esce dalla visione di questo film con un senso di vuoto incredibile, spaesati e senza sapere dove andare a sbattere la testa, sia per la bellezza propria della pellicola che per l’epilogo della storia. Rimane solo il silenzio, nostro e dei protagonisti, a colmare uno dei film più disturbanti e in qualche modo fastidiosi della scorsa stagione cinematografica, e senza dubbio la pellicola migliore che Miller abbia fatto fino ad ora, sperando che possa continuare in questo percorso che, a questo punto, potrebbe regalare ancora molte soddisfazioni.


Martin Scortese


sabato 28 marzo 2015

THE LOFT


Regia: Erik Van Looy
Origine: USA/Belgium
Anno: 2015
Durata: 108'
Attori principali: Karl Urban, James Marsden, Wentworth Miller, Eric Stonestreet, Matthias Schoenaerts, Rachael Taylor, Isabel Lucas

In genere, quando a tarda notte ho voglia di vedere un film, prima di premere “PLAY” ho l’abitudine di cercare il titolo su Google e farmi un’idea sulla base del numero di stellette dei principali aggregatori di recensioni per sapere se è il caso di perdere quelle due ore o se forse sarebbe meglio recuperare un classico che mi manca. Per fortuna quando ieri ho visto The Loft ho dimenticato di farlo. Tra l’altro ho appena scoperto che è un remake di un film del 2008 diretto sempre dallo stesso regista.



La premessa è piuttosto semplice e viene svelata nei primi cinque minuti di film, quindi non vi rovino nulla: cinque amici, liberi professionisti infarciti di soldi, decidono di condividere un loft e utilizzarlo come porto franco per i loro tradimenti. Quando uno lo vuole occupare per trapanare l’amante deve avvertire gli altri così da evitare che tutti si presentino con le rispettive amichette la stessa notte. Insomma, un piccolo club del fedifrago con tanto di regole di sicurezza. Il casino scoppia quando una mattina trovano una figona bionda dissanguata e ammanettata al letto. “Le chiavi le abbiamo solo noi, l’allarme è stato disinserito dall’interno... Quindi è stato uno di noi!”, buon divertimento.



Se questo film fosse uscito tra gli anni ’80 e ‘90 oggi ce lo ricorderemmo insieme ai vari 9½ Weeks, Basic Instinct, Fatal Attraction e compagnia bella. Invece è uscito nel 2015, il thriller erotico è stato ipersdoganato oltre ogni limite e quella merda schifosa di 50 Shades Of Grey riesce a beccarsi 46/100 su Metacritic mentre il povero The Loft un misero 24/100.



Chiariamoci, il film è guardabile e nulla di più. Riesce a intrattenere per un’oretta e mezza abbastanza facilmente anche perché ogni mezz’ora c’è un plot twist che ti fa riconsiderare tutto ciò che hai visto. Questa cosa, che per certi versi potrebbe anche essere il punto di forza del film, a un certo punto diventa anche un po’ fastidiosa, tanto che ti ritrovi col cronometro a dire “29.58... 29.59... 30! PLOT TWIST!”.

I protagonisti mentre aspettano un plot twist
I personaggi sono un po’ delineati con l’accetta senza essere però particolarmente stereotipati e le interpretazioni sono piuttosto buone. La componente erotica è molto poco presente e questo può essere un po’ un problema per qualcosa che viene venduto come thriller erotico. Tolto infatti un unico nudo di spalle della bella Isabel Lucas, l’unico motivo per cui il film potrebbe essere Rated PG-13 è una scena col trittico “coltello-polso-sangue”.


In sostanza, un film buono e nulla di più, a mio avviso però eccessivamente criticato. Magari da quelle stesse persone che poi sono riuscite a giustificare schifezze ben peggiori solo per fare la marchetta o per adeguarsi alle aspettative di un pubblico di cinquantenni insoddisfatte che fingono di scandalizzarsi per qualsiasi cosa e poi pregano affinché il loro povero marito, un triste e grigio impiegato di provincia, si trasformi in Christian Grey. Quindi fai come Ladri Di VHS: fotti il sistema, fotti la critica e guarda The Loft.





Ingmar Bèrghem

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