Regia: Denis Villeneuve
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 153'
Attori Principali: Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal Quando attendi un film da molto tempo il rischio di rimanere deluso è sempre alto, altissimo. I passi falsi sono dietro l'angolo, a maggior ragione quando si tratta di thriller, un genere che, come ovvio che sia, è ricco di sfaccettature. Più sfaccettature sono presenti nel film, più c'è il rischio di girare una boiata. Fortunatamente non è il caso del nuovo lungometraggio di Denis Villeneuve. Un thriller brillante, calibrato, mai esagerato, mai sottotono. Un film simbolico, giocato molto, a partire dal titolo, da un elemento come la prigione. Più mentale che fisica è il caso dire. I personaggi in molti casi sembrano perdersi letteralmente in un circolo vizioso privo di risposte e pregno di enigmi, di simboli appunto. Personaggi che si affidano alla fede, all'istinto, alla violenza e anche, perché no, alla paura. Ne esce il ritratto di una nazione alla ricerca di sé stessa, che lotta per non perdersi in questo labirinto senza apparentemente via d'uscita, dove la violenza diventa l'unica vera arma per esprimersi (fino a un certo punto).
Con buona pace del Dr. Cox, inoltre, è il caso di elogiare l'interpretazione di Hugh Jackman, di un'intensità dirompente, capace di rendere al meglio in un ruolo così contraddittorio, ovvero quello di un padre privato della propria figlia, ma privato anche della sua capacità di controllare e di proteggere la sua famiglia, della sua capacità di "essere pronto", come dice egli stesso a suo figlio all'inizio del film. L'ambiguità di questo personaggio si esplica in maniera chiara nel suo controverso rapporto con la religione, con Dio (poi vedrete oh, non posso dirvi tutto). Se da un lato, però, la regia sembra presa da movimenti di macchina a tratti ripetitivi, il tutto è amalgamato alla perfezione anche dalle prove degli altri attori. A partire da Jake Gyllenhaall, anche lui ottimo. Grazie alla sua espressività, giocata molto sul tic nervoso agli occhi, ai suoi toni e, perché no, al suo carisma, dà corpo e voce a un personaggio fantastico, solo contro tutti, così nella vita come nella sua professione che cerca sempre di onorare al meglio, grazie a un profondo senso di giustizia. Un personaggio ossessionato da questo caso, dalla gente che gli gravita intorno e, a differenza di Keller, da uno scetticismo di fondo nei confronti della fede. Due personaggi che si scontrano ma che sono uniti dalla ricerca del rapitore.
Ne esce fuori un film destabilizzante, che spiazza, che descrive la violenza senza compiacimenti di sorta ma al contrario ne offre un ritratto altamente negativo, in un tête-à-tête tra uomo e pulsioni violente che non può che sfociare in riflessioni sulla natura umana e sui rispettivi limiti della stessa. L'atmosfera, già cupa di per sé per il contenuto, viene accentuata ancora di più dall'ambientazione; le nuvole e la pioggia la fanno da padrone, rimandando un po' anche al Se7en di David Fincher, in cui la pioggia scandiva continuamente le vicissitudini dei protagonisti. Una cosa che stona è il poco spazio, di fatto, dedicato al personaggio interpretato da Paul Dano, ma non mi sento di dire niente di più, se non che l'attore appena citato è tanto sottovalutato quanto bravo (guardatelo ne Il Petroliere, provare per credere).
Dal punto di vista della regia, come già detto, non ci sono sbavature evidenti, anzi, è una regia poco invadente e gestita benissimo, che ama indugiare alla spalle dei protagonisti e ottenere, grazie a un ottimo reparto fotografico, delle immagini che funzionano alla grande e che colpiscono. Altro merito del regista e degli sceneggiatori è quello di non aver allungato troppo il brodo, di non aver dilatato una narrazione già ricca di per sé e allo stesso tempo di non aver lasciato nulla al caso. Equilibrato. Un'esperienza, insomma, da fare assolutamente perché, nel bene o nel male, nel nostro piccolo abbiamo tutti delle prigioni da cui cerchiamo di evadere, che sembrano invalicabili, contro cui smettiamo di combattere, per poi capire che bastava solo spingersi un po' più in là.
Daniele Morganti
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