febbraio 2014 ~ Ladri Di VHS

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69° Festival de Cannes

A Cannes dall'11 al 22 Maggio 2016.

73° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica

A Venezia dal 31 Agosto al 10 Settembre 2016

venerdì 28 febbraio 2014

NEBRASKA



Regia: Alexander Payne
Origine: Stati Uniti
Anno: 2013
Durata: 110'
Attori Protagonisti: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk


Il film candidato a sei premi Oscar è la storia di un viaggio, un lungo cammino in quella parte degli Stati Uniti depressa dalla crisi che è stata esclusa dal sogno americano.


Il protagonista, uno splendido Bruce Dern, è un anziano ormai sul viale del tramonto della sua vita che, ricevendo per posta la classica pubblicità, crede di essersi assicurato un premio di un milione di dollari. Malgrado il tentativo della moglie e dei figli di farlo ragionare, il vecchio è intenzionato ad andare in Nebraska a ritirare la sua non vincita. Il figlio minore, un commesso fallito, decide di accompagnarlo assecondando la follia del padre. Il finto premio scatena inoltre l'invidia dei parenti che vogliono una fetta del malloppo. Questo viaggio sarà un modo per rimettere insieme i pezzi di questa famiglia sgangherata.



Alexander Payne sceglie di girare il film tutto in bianco e nero e questo rende il film ancora più preciso nella descrizione e caratterizzazione dei personaggi. Questa storia non ha bisogno di colore perché non c'è colore nell'animo dei personaggi. La vera bravura del regista sta nel calibrare perfettamente la parte drammatica e la parte grottesca senza che nessuna delle due prenda il sopravvento non rendendo il film né troppo serio né troppo caricaturale. Si tratta di un grande road movie, in cui Dern dà una vera e propria lezione di recitazione. Fa amare l'anziano burbero, per poi, un secondo dopo, far tramutare quest'amore in irritazione e poi ancora in tenerezza. Il tutto con una naturalezza incredibile.



Due sono le scene memorabili. La prima quando marito e moglie si trovano al cimitero del loro paese natale e la moglie parlando a un vecchio spasimante ormai defunto mostra cosa si è perso facendo in un primo momento sorridere ma lasciando un retrogusto di amarezza profonda. La seconda è il tentativo da parte dei figli di recuperare il vecchio compressore che era stato rubato al padre anni prima da un suo ex socio. Scena davvero divertente.



Alla notte degli Oscar tiferò sicuro per Bruce (mi dispiace Di Caprio).





Pablo Lombardi



martedì 18 febbraio 2014

INSIDE LLEWYN DAVIS


Regia: Joel & Ethan Coen
Origine: Stati Uniti
Anno: 2013
Durata: 105'
Attori Principali: Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake

Il punto di forza del cinema dei Coen è sempre stato quello di saper raccontare un mondo intero con pochissime parole. Raccontano noi stessi con storie che non sono mai intime. Facciamo sempre autoanalisi con vicende mai personali. Non ci sono confessioni o facili e pretenziose spiegazioni del mondo. Siamo davanti a flussi che s'avvicendano facendoci assaporare le varie condizioni umane per dirci alla fine "fai un po' tu". Ma soprattutto, i Coen ti fanno sentir cinefilo nonostante i loro film siano gli unici che tu abbia mai guardato.


Llewyn è un musicista fallito che non vuole legarsi a nessuno ma che ha comunque la faccia tosta di chiedere prestiti, passaggi, posti letto e favori vari. Llewyn dovrebbe essere un genio incompreso? Ovviamente i Coen non sono così banali. La musica di Llewyn non interessa a nessuno perché non è né innovativa né tradizionale. Llewyn è un coglione ragazzi, e stop. Il punto di forza del film infatti è la mediocrità del personaggio. Il punto di forza del film è che Llewyn è un coglione. Si dice in giro.


Be' ma è un po' troppo facile così, no? Questo è infatti il primo film della loro fantastica filmografia in cui non accade niente. Il primo che non ti fa sentire cinefilo. Manca la forza sotto i dialoghi minimali. Maca la carne che dovrebbe sentir freddo e patire la fame. E il cuore che dovrebbe dipserarsi. Ecco, forse un è un film sull'apatia. Ma mancano i paesaggi, la storia che sa comunicare a tutti e i soliti squisiti personaggi di contorno a cui eravamo abituati. C'è solo tanta musica di merda che per quelche motivo siamo costretti a dire che ci piace. Come questo film d'altronde.




Giuseppe Bonafede

sabato 15 febbraio 2014

THE LOVED ONES


Regia: Sean Byrne
Origine:  Australia
Anno: 2009
Durata: 84'
Attori Principali: Xavier Samuel, Robin McLeavy

Provate a immaginare la sensazione che si può provare avendo la possibilità di salire sul ring contro Mohammed Alì per poi chiamare sua madre “troia negra” e finire per avere salva la vita grazie all’arbitro. Ecco, esiste un certo genere di film in grado di far provare quella sensazione di malessere fisico misto a vergogna con un pizzico di soddisfazione. Sono quelli che io definisco splatter 2.0, ovvero quei film in cui non ci si limita a mostrare le più oscene torture fisiche ma subentra anche il fattore “ti faccio tremare di rabbia durante il film perché sei stronzo e ti sei immedesimato nel protagonista, cazzi tua”.


The Loved Ones è un film australiano del 2009 diretto da Sean Byrne. Vedendo anche solo metà del trailer avrete subito chiarissima la trama: lei invita lui al ballo della scuola ma lui rifiuta quindi lei fa rapire lui per torturarlo. Finito il trailer mi aspettavo una minchiata. Ho riso con Hostel, non mi sono scomposto per Non Violentate Jennifer, ho continuato a mangiare i miei trecento grammi di carbonara con Avere Vent’Anni, “Hey, cosa potrà farmi una psicopatica che vuole andare a un cazzo di ballo?”. E fu così che rimasi sorpreso.


Questo genere di film ha spesso la stessa impostazione: trama inutile ma soprattutto attori molto approssimativi. Stai facendo un film sul dolore fisico, mi va bene che te ne sbatti della trama ma il dolore devi farmelo avvertire, chiama quattro attori capaci. Ecco, qui gli attori sono maledettamente capaci e i personaggi non sono piovuti dal cielo. Ho avuto il tempo di pensare “Senti regista, vedi di rendere più morbosa, al limite dell’incestuoso, la relazione tra la tizia pazza e il padre” taaaac. Puntuale, preciso, perfetto. Il regista a un certo punto si permette pure uno scherzetto in montaggio facendo credere una cosa per un’altra, simpatico.


Xavier Samuel sa fare percepire il dolore fisico, la paura e la sensazione di merda che prova un topo in trappola (deve essere ciò che ha provato recitando poi nella saga di Twilight). Robin McLeavy mi ha fatto odiare chiunque avesse le tette per l’intera durata del film (“Vi odio tutte, TUTTE!”). John Brumpton deve essere un maniaco perché la parte del padre che si farebbe la figlia gli è venuta una meraviglia. Nota di merito per Jessica McNamee che fa una parte inutile ma è bona da morire.


Questo è il genere di film che in Italia non fanno arrivare e che mi tocca vedere sottotitolato. Guardatelo, magari in compagnia della vostra ragazza. Magari il prossimo San Valentino.




Alessilas


venerdì 14 febbraio 2014

THE WOLF OF WALL STREET


Regia: Martin Scorsese
Origine:  USA
Anno: 2013
Durata: 180'
Attori Principali: Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie

L'amore viscerale che riservo a un regista come Scorsese penso sia abbastanza evidente ormai. Non a caso il mio nickname è Martin Scortese. Non starò qui a fare una prosopopea sul perché mi piaccia così tanto e perché lo ritenga, di fatto, il mio regista preferito. Vorrei concentrarmi sul suo ultimo lungometraggio, The Wolf of Wall Street, e spiegare perché lo ritengo un filmone come pochi e un tassello importante della poetica, se così la possiamo definire, di questo cineasta. Il film narra la vera storia di Jordan Belfort, la sua ascesa nel mondo dei broker alla fine degli anni 80, con la fondazione di una sua società capace di fatturare 23 milioni in un mese, e il suo conseguente declino. La cosa che salta all'occhio immediatamente è la freschezza nella sguardo di Scorsese (71 anni), che riesce a descrivere in maniera acutissima, dinamica e anche feroce un mondo incredibile, fatto di eccessi, sesso, droga, alcool, nani usati per il tiro al bersaglio e chi più ne ha più ne metta. Affidandosi a giganti della recitazione, come Di Caprio e Jonah Hill, per non parlare di McConaughey, che in 15 minuti di apparizione buca lo schermo e da vita, insieme al protagonista, a una delle tante scene cult presenti nel film, Scorsese riesce in una gran riflessione sulla deriva causata dall'eccesso di denaro innanzitutto ("avevamo più soldi di quanti ce ne servissero") che si traduce nell'eccesso in tutto. Non c'è un attimo di sosta, di respiro.


Il film, della durata di 3 ore, fila liscio come un bicchier d'acqua, e grande merito va dato a Scorsese che confeziona un montaggio quasi delirante e allucinato, frenetico e spintissimo. Il tutto girato con immensa maestria. Parlavo delle scene cult, ecco, sono sicuro che tra 10 anni (e anche meno) continueremo a pensare a questo film e ci verranno in mente una marea di scene menzionabili. Vuoi per la potenza prettamente visiva di alcune scene, vuoi per alcune battute o per alcuni dialoghi, vuoi per una particolare canzone in un determinato momento, vuoi per un'inquadratura particolare. Poco importa, ce lo ricorderemo, e sfido chiunque a dire il contrario tra 10 anni. Vedremo. Se poi volessimo inquadrare questo film in un determinato genere direi che ci troviamo di fronte a una commedia nera. Per il semplice fatto che ci sono scene che fanno ridere a crepapelle (il padre di Jordan, Mad Max, interpretato da Rob Reiner, è protagonista di un paio di scene da lacrime; la già citata scena di McConaughey nei panni di Mark Hanna; l'incontro sullo yacht da Jordan e i due agenti dell'FBI) ma l'atmosfera che si respira è quella di un inferno grottesco, di una spirale di vizio e lusso senza uscita che sembra ricordare, per certi tratti, anche Casinò, in cui gli eventi, come in questo film, diventano semplicemente incontrollabili per i protagonisti.


Mattatore assoluto è ovviamente Leonardo Di Caprio, che con questo progetto si è spinto oltre qualsiasi altro lungometraggio fatto in precedenza con Scorsese, rendendo al meglio in un personaggio arrivista, ambizioso, cocainomane, sesso-dipendente, con una prova molta fisica, fornendo il suo corpo per orge e balletti deliranti. Ma tutto convince della sua prova, di un'esagerazione a volte anche misurata. Lode anche a Jonah Hill, che dopo l'ottimo Moneyball, si dimostra un eccellente braccio destro in film dai toni più drammatici. Un personaggio, quello interpretato da Hill, che sembra una proiezione più soft, per forza di cose, del Joe Pesci di Goodfellas o dello stesso Casinò. Sono due facce diverse dello stesso eccesso, in fin dei conti. Ottimi sono anche i contribuiti musicali, che passano dal jazz al rock dei Foo Fighters, dai Lemonheads a canzoni dal gusto totalmente italiano. Cercare significati nascosti in questo film è come cercare dei premi Pulitzer a casa di Fabio Volo. Inutile. Per il semplice fatto che è un film diretto, senza filtri, il più sboccato di Scorsese (si contano 506 "fuck" e relative variazioni della parola nel film), il più spinto sessualmente del suddetto regista. 


Ma la sensazione che si ha, e non voglio fare spicciola retorica, è che la ricchezza non renda totalmente nobili come vuole farci credere Belfort, che ritiene, appunto, che il denaro non ti compra solo una vita migliore ma ti rende anche una persona migliore. Non è vero, perché ci si rende conto che l'individuo diventa egli stesso moneta circolante, circondato da affetti fittizi, da persone attaccate solo per tornaconto personale. E dopo non rimane niente, se non la consapevolezza di essere uno dei tanti. Ennesimo punto a favore per il film: il finale. Semplicemente perfetto, apice ideale di una narrazione circolare in cui tutto finisce come era iniziato, facendoci intendere, in maniera delicata e per questo in netto contrasto con tutto quello che il film aveva espresso fino a quel momento, che un nuovo Jordan Belfort può essere ovunque. Insomma, un film da vedere assolutamente.


Daniele Morganti

giovedì 13 febbraio 2014

BULLET TO THE HEAD


Regia: Walter Hill
Origine:  USA
Anno: 2012
Durata: 92'
Attori Principali: Sylvester Stallone

La pochezza di idee che negli ultimi anni ha colpito gran parte del cinema Hollywoodiano è abbastanza evidente: tra remake, reboot e saghe infinite non sa più da dove attingere idee e complice questa situazione stagnate, in questi tempi bui si è assistito ad un revival dell'action americano che imperversava negli anni '80 che fece sognare la mia generazione con i suoi eroi tutti muscoli e non troppo cervello atti a risolvere i problemi tra incredibili scene d'azione ed ironia.
Le uscite recenti di questo filone hanno assunto un tono ancor più parodistico, effetto voluto per far presa su un pubblico di nostalgici ma la qualità della quasi totalità di queste è molto bassa e non basta resuscitare le vecchie mummie di Stallone e Schwarzenegger per generare episodi convincenti.
L'eccezione si presenta quando a prendere il comando ad un progetto revival è un regista navigato di nome Walter Hill che nel corso della sua carriera ha dimostrato le sue indubbie doti di regista e che coglie la palla al balzo per confezionare uno degli action americani più riusciti degli ultimi anni.


La trama è estremamente semplice: "James Bonomo, conosciuto come Jimmy Bobo (Sylvester Stallone), è un killer che uccide a pagamento. Vede uccidere il suo compagno d'affari e dovrà allearsi con un poliziotto, il cui ex compagno è stato fatto fuori dagli stessi malavitosi, per scoprire la verità e fare giustizia." (fonte Wikipedia), la sceneggiatura quindi non offre particolari guizzi ma questo non è affatto un problema, il tutto è congeniale per favorire l'azione e in questo film non mancano momenti di vera goduria dove è possibile gustarsi uno Stallone finalmente ben sfruttato per quello che è, certamente non un grande attore dal punto di vista recitativo ma non è questo un film dove si ha bisogno quel tipo di capacità, il nostro Sly è dotato di fisicità e di un viso unico, in un contesto come questo la sua maschera è perfettamente funzionale al tutto e nessuno meglio di lui sarebbe stato adatto al ruolo interpretato.


Altro plauso da fare alla regia di Hill che anche in questo episodio conferma i suoi ottimi standard, finalmente un regista americano che decide di fare un film d'azione senza infarcirlo con dosi nauseanti di computer grafica e decide anzi di puntare sulla spettacolarizzazione dei movimenti dei suoi personaggi, cercando di proporre delle coreografie di combattimento che si avvicinano al modello dei film d'azione asiatici senza però cercarne la stessa perfezione stilistica e lasciando quanto basta del grezzo stile di combattimento tipico dell'action americano in un mix ottimamente riuscito (vedere il combattimento finale per credere). Ciliegina sulla torta una colonna sonora rock 'n roll che scandisce il ritmo galoppante di quest'opera di 90 minuti di puro intrattenimento.




Axel Spinelli

giovedì 6 febbraio 2014

HER


Regia: Spike Jonze
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 126'
Attori Principali: Joaquin Phoenix, Amy Adams, Olivia Wilde

Her è la nuova fatica di Spike Jonze, regista di alcuni film molto apprezzati tra cui Essere John Malkovich. La pellicola parla di Theodore, interpretato da Joaquin Phoenix, scrittore di lettere conto terzi con una sensibilità spiccata. Depresso, dopo la fine del suo matrimonio, si rifugia nell'amore con un sistema operativo (OS) che ha la voce di Scarlett Johansson. Il tutto ambientato in un futuro abbastanza prossimo.


Il film vive di una trama non particolarmente complessa ma che viene resa delicata, uggiosa, triste ma al tempo stesso arguta da un sempre straordinario Joaquin Phoenix che regge una sceneggiatura che alterna a dialoghi molto brillanti e divertenti altri dialoghi più melanconici tra lui e l'OS. Ottima anche la prova vocale di Scarlett Johansson (ho visto il film appositamante in lingua originale) che, senza mai apparire, fa arrivare alle orecchie le sue emozioni virtuali, non a caso vincitrice del premio Marc'Aurelio d'Argento per la miglior attrice al Festival internazionale del film di Roma. Tra gli attori non protagonisti da segnalare una quasi irriconoscibile Amy Adams, candidata all'oscar per Amercian Hustle.


La bravura di Jonze è immaginare un futuro che è già presente in cui i rapporti virtuali spesso soppiantano quelli reali e si confondono senza confine tra il vero e l'immaginario. Tutto questo rappresentato con il solito tocco leggero, che ci fa entrare in punta di piedi nella vita del protagonista usando magistralmente la macchina da presa. Molto bella la scena in cui Phoenix, che in questo film mi ricorda esteticamente Groucho Marx, fa una scenata di gelosia al OS perchè ha numerosi rapporti amorosi con altre persone. Film che lascia un segno.




Pablo Lombardi


martedì 4 febbraio 2014

THE BROKEN CIRCLE BREAKDOWN



The Broken Circle Breakdown è uno dei film che contenderà al "nostro" La grande bellezza la prestigiosa statuetta nella notte degli Oscar che ci sarà tra pochi giorni. La pellicola di produzione belga, che in italiano si intitola Alabama Monroe- Una storia d'amore, parla dell'incontro tra una tatuatrice e un musicista Folk che vive avendo il mito d'America. Tra i due nasce una passione trascinate e l'arrivo della figlia li rende una famiglia felice, fino alla scoperta che la bimba è malata di cancro. Questo rimette tutte le certezze acquisite in gioco e il dolore prende il sopravvento.


Il film non ha una linea temporale continua, vive di flash back, cosa che rende il film meno pesante in alcuni momenti emotivamente più duri. Si vede bene la contrapposizione tra il dolore e la felicità precendente. Ed è proprio questo che rende il film molto bello, la perfetta calibrazione tra la parte drammatica e quella più spensierata che si fondono insieme facendo vedere le due facce della medaglia dell'amore. Van Groeningen, il regista, si trova alle prese con una storia forte e un'ottima sceneggiatura ha il grande merito di riuscire a rendere bene il dolore e la sofferenza dei genitori senza cadere in facili trucchetti strappalacrime. Non eccede troppo nei dialoghi, che sono peraltro molto ben misurati, ma riesce a creare una perfetta miscela di silenzi, sguardi e canzoni, che sono parte integrante e imprescindibile del film.



Particolarmente toccante è la scena in cui Didier, il padre, durante un concerto con il suo gruppo Folk sfoga tutto la sua rabbia repressa cercando di colpevelizzare Dio e credenti per quanto successo alla figlia. Una menzione particolare a Veerle Baetens, la protagonista, autrice di una prova superlativa anche come cantante, suo vero mestiere. Ancora una volta il cinema si dimostra uno straordinario condensato delle emozioni umane e film come questo mi fanno amare la settima arte.




Pablo Lombardi

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