ottobre 2014 ~ Ladri Di VHS

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giovedì 30 ottobre 2014

BOYHOOD


Regia: Richard Linklater
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 166'
Attori protagonisti: Ellar Coltrane, Ethan Hawke, Patricia Arquette

Boyhood è un film ambiguo, da parte mia anche piuttosto difficile da decifrare. Mi sono rivisto in molte cose, in alcuni casi anche emozionato, per il semplice fatto che il film parli, inconsapevolmente, anche di me e di riflesso della mia generazione, quella che ha vissuto l’infanzia tra il finire degli anni 90 e gli inizi degli anni 00. Lo capiamo da tutti gli elementi culturali e sociali caratteristici di determinati periodi che Linklater, a volte anche troppo didascalicamente, dissemina per tutto il film. Da Harry Potter alla campagna elettorale che darà il via alla prima presidenza Obama. Ma non è questo il punto. Il film si concentra sulla vita di Mason dagli otto ai vent’anni. Figlio di genitori separati, resi al meglio da una Patricia Arquette ottima e da un Ethan Hawke convincente, riuscirà, dopo esperienze forgiatrici e batoste sentimentali e familiari, a dare vita a un nuovo sé stesso, a cercare di reinventarsi assecondando un mondo che, nel suo piccolo, riuscirà poi a capire.


Il modo delicato ed estremamente umano con cui il regista decide di dirigere questo film è sicuramente la nota più positiva, riesce, senza esasperare certi contesti (a parte in un caso, in cui è d’obbligo farlo) e senza ricercare la lacrimuccia facile, a farci entrare in empatia col protagonista. Una regia che non si lascia andare a virtuosismi di sorta ma che preferisce far parlare la quotidianità, per farci capire meglio cosa vuol dire sentirsi smarriti e soli in certe circostanze. Ne viene fuori un affresco piuttosto veritiero e sentito su cosa sia la vita, ma soprattutto su cosa sia l’esperienza, come relazionarsi con essa e come arrivare a comprenderla. Per chi non lo sapesse (ma penso che a questo punto anche i muri lo sappiano) ci sono voluti 12 anni (contratti poi in 39 giorni totali di riprese) per realizzare il film, per rendere al meglio, nei volti degli attori, la sensazione del tempo che passa, e rendendo così il cinema vita vera e propria, e quindi a sua volta esperienza totale.


Da non dimenticare poi che ci sono altri temi interessanti che vengono trattati nel film, dalla politica alla psicologia per arrivare poi all’importanza della scuola e in generale dell’insegnamento. Le riserve ritengo giuste spenderle sulla prova del protagonista del film che se all’inizio funziona egregiamente, merito anche della naturalezza con la quale certi bambini riescono a dialogare con la macchina da presa, diventa via via fiacca e anche un po’ irritante, visto che la sua interpretazione si eclissa e si arena con una recitazione sempre più passiva, al contrario degli altri personaggi che mutuano in figure più di spessore.


Nonostante tutto stiamo parlando di un buon film, probabilmente già nella storia del cinema per il modo in cui è stato realizzato, ma la resa, alla fine dei conti, non vale tutto lo sforzo fatto, perché se è vero che a grandi linee è un film molto maturo, è vero anche che pare che Linklater si adagi troppo e caschi in alcuni cliché che rischiano di vanificare, come già detto, il buon lavoro fatto. Ma il consiglio è di lasciarsi comunque trasportare dalla visione, riuscire a rendere noi parte di un’esperienza, quella di Mason, che inconsapevolmente abbiamo già vissuto per conto nostro. È impossibile, insomma, non rivedersi almeno un po’ con la figura di uno spirito alla ricerca della sua strada, quella che noi come lui stiamo ancora cercando o che, una volta trovata, dobbiamo decifrare fino in fondo, perché si ha certezza del passato e del presente, ma il futuro è sempre tutt’altra cosa.


Martin Scortese



lunedì 27 ottobre 2014

A MOST WANTED MAN


Regia: Anton Corbijn
Origine: USA/UK/Germania
Anno: 2014
Durata: 121'
Attori protagonisti: Philip Seymour Hoffman

Questa è la storia di Yssa il buono, l’ennesima storia di John Le Carré finita sul grande schermo, una storia di servizi segreti, spie e terroristi. Dimenticate i congegni fumettistici di James Bond e allontanatevi dall’idea dell’agente super cazzuto alla Jason Bourne, il protagonista di A Most Wanted Man è Günther Bachmann e la cosa più mirabolante che gli vedrete fare sarà bere un caffè nero. Questo film è forse tra i più vicini alla realtà per quanto riguarda i servizi.



Siamo ad Amburgo, una città sotto stretta osservazione da parte dell’antiterrorismo in seguito ai fatti dell’11 Settembre. Bachmann è a capo di un’unità di monitoraggio che fa “quello che i tedeschi non possono fare”, vale a dire che si prende delle libertà laddove la legge tedesca pone un limite puramente burocratico, limite che per Bachmann rappresenta un ostacolo alla possibilità di bloccare un potenziale terrorista. Anton Corbijn segue il protagonista per le strade di una città dai toni desaturati e lo fa riuscendo a rendere alla perfezione l’atmosfera pesante e alienante. Bachmann, la giovane avvocatessa Annabel Richter, Issa e gli altri personaggi si muovono in una città con quasi due milioni di abitanti senza che nessuno li noti. Sono tutti in secondo piano, sembrano quasi non esistere e l’attenzione è focalizzata solo ed esclusivamente su chi arriva a interagire con questa zona grigia.



Il film non ha particolari colpi di scena ma riesce comunque a mantenere sempre alta la soglia di attenzione dello spettatore, andando avanti in maniera moderata per un totale di due ore a ritmo costante fino allo schianto finale. La verità è forse che la parte più affascinante del film è l’interpretazione di Philip Seymour Hoffman, non tanto per l’interpretazione in sé, che è comunque perfetta, quanto perché è assolutamente inevitabile per lo spettatore fare un duale tra l’attore e il personaggio interpretato. Ciò ci fa vivere la storia probabilmente con un coinvolgimento diverso, sicuramente maggiore, per quanto nessuno si sia azzardato a speculare su questa cosa. Anzi, tanto di cappello a Corbijn che ha dichiarato di essersi opposto all’utilizzo di “L'ultimo film di Philip Seymour Hoffman” in campagna pubblicitaria.


Bachmann/Hoffman è stanco e vive portandosi dietro i fantasmi del suo passato, correggendo il caffè col whiskey senza neanche badare alla quantità. Si muove per inerzia quasi, in maniera affannata ma convita, fino alla fine. Fino a quando la sua esplosione di rabbia non manifesterà un’insofferenza nei confronti della vita, della meschinità dell’uomo, di chi l’ha fatto finire ad Amburgo punendolo per delle colpe mai commesse. Un finale che non dà un insegnamento o porta a una risoluzione dell’intreccio, non è questo l’intento del film. Ci ritroviamo a guardare un finale che lascia l’amaro in bocca e che forse, purtroppo, toglie un po’ di speranza.


In conclusione, la prestazione del protagonista è talmente empatica che è inevitabile lasciarsi assorbire completamente per due ore da una storia tuttavia semplice e con pochi dialoghi. Quello che a giudicare dal titolo del libro di Le Carré dovrebbe essere il vero protagonista si riduce a essere un semplice pretesto per raccontare una storia, vedendosi ridotto a personaggio secondario ma riuscendo comunque a raccontare con poche espressioni la sofferenza dell’intera popolazione cecena. Nota di merito per Willem Dafoe che è al sesto film di seguito per il 2014 e non fa un’interpretazione brutta manco a pagare. Noi non siamo pagati per fare pubblicità quindi possiamo dirlo: andate a vedere l’ultima splendida interpretazione che Philip Seymour Hoffman ha donato al mondo del cinema.


 



Ingmar Bèrghem

venerdì 24 ottobre 2014

AUTÓMATA

 

Regia: Gabe Ibáñez
Origine: USA/Spagna
Anno: 2014
Durata: 110'
Attori protagonisti: Antonio Banderas

Essere cresciuto tra Asimov, Kenshiro e Blade Runner mi ha reso particolarmente sensibile nei confronti degli scenari post apocalittici e delle storie con intelligenze artificiali che interagiscono con l’uomo, per questo motivo quando ho visto il trailer di Autómata non mi sono potuto tirare indietro più di tanto. Tra l’altro il mio subconscio era ormai convinto che Antonio Banderas avesse fatto per tutta la vita pubblicità della Mulino Bianco, quindi forse era meglio dargli la possibilità di tornare nella categoria “attori”.


Il perno della storia sono “i due protocolli”, una sorta di corrispondente delle “tre leggi della robotica” di Asimov:

Un robot non può danneggiare alcuna forma di vita. 
Un robot non può modificare sé stesso o altri robot.

Gli aficionados di queste tematiche non saranno sorpresi dal fatto che, ovviamente, uno dei protocolli verrà infranto (ricordate I, Robot vero?), nello specifico parliamo del secondo, quello che permetterebbe a uno di questi Autómata Pilgrim 7000 non soltanto di auto ripararsi ma anche di migliorarsi, di acquisire conoscenze e competenze, potenzialmente senza alcun limite.


In questo contesto si muove Jacq Vaucan, interpretato da un buon Banderas, un assicuratore della ROC. Se il tuo robot non funziona, Vaucan arriva a casa tua, fa una revisione al giocattolo e ti dice che tutto funziona e quindi la ROC non ti paga, semplice. Quando però assiste coi suoi occhi a una violazione del secondo protocollo inizierà a investigare andando alla ricerca di un fantomatico orologiaio, sicuramente colpevole dell’illegale quanto impossibile modifica al biokernel degli automi. A tutto ciò aggiungete il boss della ROC che lo vuole morto, una moglie incinta e un Autómata illegalmente modificato per essere utilizzato in un bordello abusivo. È la classica storia sul legame uomo-macchina, su quanto la società dipenda dalla tecnologia e sul fatto che Frankenstein lo abbiamo fatto nascere noi e quindi non dovremmo lamentarci.


Il film procede a ritmo lento ma costante. Non ci sono corse mozzafiato, se non in un paio di frammenti, o colpi di scena che spiazzano lo spettatore, si tratta più di una ricerca di immagini volte a far riflettere e in qualche caso a turbare. La trama a un certo punto sembra diventare un semplice pretesto per far interagire i personaggi: gli Autómata hanno una missione da compiere, non è neanche ben chiaro quale sia questa missione ma non bisogna far l’errore di vederlo con un punto di rottura nella trama. È la stessa Cleo, la robo-prostituta, a rispondere che “tanto non capiresti” a un malconcio Banderas in cerca di spiegazioni.


Non si tratta di un capolavoro ma non è sicuramente un film che merita le critiche di vuotezza che sta ricevendo un po’ da tutti. L’accostamento al film cult di Ridley Scott oltre a essere inutile risulta anche fuori luogo, si tratta infatti di pellicole che utilizzano strumenti diversi per arrivare a conclusioni simili ma non uguali. Autómata è un film minimale, sia nei dialoghi che nelle ambientazioni, ma non per questo scarno. Una critica può essere mossa ai personaggi secondari (terziari?), affidati a attori di poco spessore, ma Melanie Griffith e Robert Forster spiccano pur facendo poco. In generale si tratta di un buon film, su qualcosa magari di già visto ma ben presentato e che vale la pena vedere.





Ingmar Bèrghem

mercoledì 22 ottobre 2014

IL GIOVANE FAVOLOSO


Regia: Mario Martone
Origine: Italia 
Anno: 2014
Durata: 137'
Attori protagonisti: Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Iaia Forte, Isabella Ragonese

Tra i film più attesi dell’ultima mostra del cinema di Venezia, il film di Martone, incentrato su uno dei più grandi autori italiani della storia, sa tanto di occasione persa, proprio perché i barlumi di grande cinema che lascia intravedere danno, per l’appunto, l’impressione di un film discontinuo. Inquadrature bellissime, che sembrano studiate nei minimi dettagli, vengono alternate ad altre scene un po’ sciatte, senza mordente e concepite senza un’idea di fondo precisa. Se stessimo parlando di una canzone potremmo tranquillamente dire che manchi di armonia.


Il film, comunque, ha dei meriti innegabili; quando si lascia andare Martone dà vita a momenti anche piuttosto intensi, in cui anche il montaggio è gestito in maniera notevole. Penso alla scena (SPOILEEER!!!) della morte di Silvia; a quella del piccolo tribunale messo su contro Leopardi dal padre e dallo zio dopo il primo tentativo di fuga da Recanati, dove in pochi secondi il regista riesce a condensare amor paterno, rabbia, realtà, immaginazione e speranze (complice un'ottima prestazione di Elio Germano); le scene in cui dà sfogo ai suoi rimpianti ripensando all’infanzia e quelle in cui il regista si focalizza sulle aspirazioni del poeta marchigiano, sopratutto dopo l’incontro con Pietro Giordani. Il fatto è che tutte le cose che più funzionano nel film fanno parte del periodo di vita recanatese del Leopardi, gli anni dello “studio matto e disperatissimo”, gli anni della presa di coscienza che la poesia sia l’unico filtro, l’unica valvola per esprimersi al meglio, e da lì l’istinto quasi febbrile di scrivere non lo abbandonerà più. L’importanza della letteratura, della filologia e dello studio è preponderante in questa prima fase.


Il lungometraggio di Martone, da qui in poi, inizia a perdersi, a concentrarsi su aspetti poco interessanti della vita di Leopardi tra Firenze e Napoli, tra delusioni amorose, litigi con gli sterili critici delle sue opere ed esperienze sessuali al limite del ridicolo. Il regista si interessa più al tracollo fisico del poeta piuttosto che a una rappresentazione più veritiera di che cosa fossero state per Leopardi le esperienze di Firenze e Napoli. Non bastano quindi le bellissime scene conclusive con l’eruzione spettacolare del Vesuvio a far impennare un film che non riesce a prendere una direzione precisa, sia a livello narrativo sia a livello di messinscena. Altra nota positiva è la colonna sonora di Apparat che riesce a creare un’atmosfera piuttosto insolita, in questo connubio interessante tra scenografie e costumi ottocenteschi e l’ambient dei giorni nostri, dando vita a scene molto suggestive e di forte impatto.


Insomma, sicuramente un discreto film, da vedere per farsi una propria opinione ovviamente, portatore di alcuni messaggi molto validi, ma che non riesce, purtroppo, a renderci partecipi in pieno della vita di Leopardi, lasciandoci quasi indifferenti e con l’idea di aver visto qualcosa con grandi potenzialità non sfruttate a pieno.


Martin Scortese


lunedì 20 ottobre 2014

THE EQUALIZER


Regia: Antoine Fuqua
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 131’
Attori protagonisti: Denzel Washington

Quando penso ai film della mia infanzia è inevitabile che la memoria vada a pescare botte, esplosioni, botte, botte, esplosioni e frasi a effetto pronunciate prima di svuotare un caricatore. No, non sono nato in una prigione ucraina, né nel Bronx ma ho avuto l’enorme fortuna di portare sulle spalle il retaggio cinematografico della decade antecedente a quella della mia nascita, il pesante fardello degli action movie degli anni ’80. Fare oggi un film in quel modo risulterebbe ridicolo e caricaturale ai limiti del trash, per intenderci, otterremmo solo tanti The Expendables. È sostanzialmente questo il motivo per cui per The Equalizer avevo aspettative nulle e forse per lo stesso motivo mi ha soddisfatto.



Antoine Fuqua ci riprova. Il regista di Training Day richiama alle armi colui che proprio con quel film vinse l’Oscar, Denzel Washington, con l’intento di mettere in piedi uno spaccatutto alla vecchia maniera. Attenzione, The Equalizer non è un film CON Denzel Washington, è un film SU Denzel Washington: Robert McCall, un ex CIA, il migliore che ci sia stato, il più addestrato, il più intelligente, dopo essersi ritirato alla soglia dei sessant’anni a vita tranquilla, si vede “costretto” a tornare attivo eliminando chiunque gli si metta davanti. Denzel Washington, un attore sessantenne, dopo tanti personaggi con semiautomatica in mano e sangue freddo a litri, torna ancora una volta a interpretare quello figo e forte e non c’è faccino giovane e fresco di Hollywood che possa reggere il confronto.



Non badate al sottotitolo che hanno dato in Italia al film, “Il vendicatore”, Robert McCall non cerca nessuna vendetta, cerca di fare una vita tranquilla. Molto semplicemente, quando assiste a un’ingiustizia, interviene a riequilibrare i piatti della bilancia e quando interviene è brutale. Userà le mani, pistole, fucili, cavatappi, bottiglie, coltelli, martelli, trapani e un orologio da polso che gli serve per cronometrarsi. Per cro-no-me-trar-si. Un tizio di sessant’anni che scommette contro l’orologio quanto tempo impiegherà per fare piazza pulita quando decide di ammazzare tutti di botte. Fine della trama.
 


Il ritmo è cadenzato, così come la routine di Robert: lavoro, pranzo coi colleghi, lavoro, cena alla tavola calda, libri, letto. A un certo punto un fattore esterno altererà questa routine. Una ragazza, una giovane prostituta interpretata da una brava Chloë Grace Moretz, che cena sempre alla sua stessa tavola calda, finisce all’ospedale con la faccia tumefatta. Da qui Robert farà a pezzi un’organizzazione criminale russa (perché negli action degli anni ’80 i cattivi o sono russi o sono vietnamiti, no doubt) con tutta la nonchalance del mondo.



Non ho spoilerato. Questo film ha una trama talmente banale che sappiamo come finirà ancora prima che inizi. L’unico dubbio che può sfiorarci la mente è se Robert McCall farà la fine del John Creasy di Man On Fire o se riuscirà a salvarsi. Ma questo non è importante, può sicuramente essere un punto debole del film ma non si guarda sicuramente qualcosa del genere aspettandosi chissà che intreccio. In conclusione ci troviamo di fronte a due ore di buon intrattenimento ben girato, ben interpretato, sicuramente scritto senza uno straccio di idea nuova ma sicuramente godibile per tutti gli amanti del genere.






Ingmar Bèrghem

venerdì 17 ottobre 2014

HORNS


Regia: Alexandre Aja
Origine: USA, Canada
Anno: 2013
Durata: 123’
Attori protagonisti: Daniel Radcliffe, Juno Temple

Qualche tempo fa mi sono ritrovato a vedere il trailer di questo film, presentato a Toronto l’anno scorso ma di prossima uscita nelle sale di tutto il mondo. Se esistesse un genere apposito per quei film mediocri in grado di creare enormi aspettative se condensati in due minuti e mezzo, probabilmente Horns sarebbe in una dignitosissima (?) Top100 di tutti i tempi.



L’autore della storia è Joe Hill, nome d’arte di Joseph Hilltrom King, figlio di un certo Stephen che ha causato microinfarti a intere generazioni con IT e altre simpatiche storielle per bambini. Hill abbandona il nome del padre per evitare di passare per “il figlio di” e fa bene, scrive buoni romanzi e realizza fumetti di spessore come Locke & Key. Purtroppo però, il suo Horns è finito nelle mani di Alexandre Aja.


La storia è abbastanza semplice e viene svelata nei primissimi minuti: lui ama lei, lei ama lui, qualcuno ammazza lei, il mondo incolpa lui. E fino a qui tutto bene. Al povero Ignatius Perrish, interpretato da Daniel Radcliffe, non resterà che cercare il vero assassino. È a questo punto che Joe Hill si ricorda di essere figlio di Stephen King e lancia la bomba. Ig Perrish si sveglia con delle corna da diavolo che gli danno l’abilità di far mostrare le persone che lo circondano per ciò che sono veramente, facendo emergere tutto il male che può celarsi dietro gli abitanti di un paesino sperduto tra le montagne. No, non è Twin Peaks anche se l’ambientazione è simile. Interagendo quindi a giro con tutti i personaggi che lo circondano arriverà alla verità.


D’accordo, potrebbe sembrare figo, allora dov’è la fregatura? Il problema di questo film è la sua incapacità di scegliere cosa essere. Parte come fiaba per adulti per diventare un thriller psicologico, si trasforma in un film dell’assurdo tendente al grottesco e termina con scene splatter da b-movie anni ’70. Il risultato è un minestrone di generi che fa perdere incisività al film, soprattutto nella sua seconda metà con tanto di cazzatona finale condita da tonnellate di computer grafica.


Una buona idea realizzata male. Probabilmente per mancanza di coraggio da parte di Aja che, nel tentativo di fare un film adatto a un range più ampio di persone, realizza un film inconsistente che sembra quasi cambiare regista e sceneggiatore ogni venti minuti solo per coprire più generi possibile. Si salva Radcliffe, anche se si limita al suo senza riuscire a toccare i picchi di emotività raggiunti in Kill You Darlings, buona la prova di Juno Temple, divertenti alcune gag presenti nella “parte grottesca” del film. Per il resto, film evitabile.





Ingmar Bèrghem

mercoledì 8 ottobre 2014

LUCY


Regia: Luc Besson
Origine: Francia
Anno: 2014
Durata: 89’
Attori protagonisti: Scarlett Johansson, Morgan Freeman

Lucy è una studentessa che vive a Taiwan. Per colpa di un uomo conosciuto da poco si trova obbligata a consegnare una misteriosa valigetta al pericoloso malavitoso coreano Mr. Jang. Nella valigia si trova una nuova droga che viene inserita nello stomaco della giovane in modo da permetterle di fare da corriere della droga suo malgrado. Dopo essere stata picchiata il sacchetto della droga si rompe ed entra in circolo aumentando a dismisura la capacità di sfruttamento del cervello umano. Questo permette alla protagonista di sviluppare una serie di capacità incredibili. 


Il film si basa su una semplice e nemmeno troppo originale domanda. Cosa sarebbe in grado di fare l'uomo se riuscisse a sfruttare il 100% del suo potenziale? Luc Besson prova a rispondere al quesito con un film che non riesce a trattare il tema in maniera convincente. La pellicola parte in perfetto asian action movie style in cui tensione e humor nero la fanno da padroni. Non è un caso che sia la parte migliore del film. Il regista francese si trova perfettamente a suo agio in questo tipo di cinema fatto di ritmi alti e adrenalina, vedi Leon e Nikita. Risulta anche molto interessante l'utilizzo di frammenti di documentario per rendere più scientifico il film.


Una volta che Lucy assorbe la sostanza il film cambia registro diventando molto pretenzioso cercando di far vedere i limiti umani. Scarlett Johannson ricorda alcuni personaggi dello stesso Luc a partire da Anne Parillaud di Nikita per passare da Milla Jovovich ne Il quinto elemento e arrivare a Rie Rasmussen di Angel-A. Donne forti, molto mascoline. Il problema principale del film è che sembra un miscuglio di generi, a volte anche messi a caso. Come già detto, si parte con l'azione per poi passare al genere fumettistico degli inseguimenti e sparatorie al thriller scientifico e alla fantascienza.


Quello che manca e che aveva reso belli i film di Besson era la forte caratterizzazione dei protagonisti. Anche nei suoi film meno riusciti come Giovanna d'Arco si ritrova quest'aspetto, qua del tutto assente. Si ha la sensazione che non riesca a prendere una precisa direzione. La perfetta sintesi di questo è il professore Samuel Norman, interpretato da Morgan Freeman, di cui non viene raccontato e di cui non si sviluppa il notevole potenziale che potrebbe avere nella trama. Da segnalare l'unico momento bello e toccante del film, la telefonata di una Johannson, con capacità intellettive amplificate, a sua madre. In sintesi è un film fatto per incassare con la pretesa di essere qualcosa di più. Di certo, viste le premesse mi sarei aspettato maggiore incisività. Restano 80 minuti senza infamia e senza lode.





Al Barbone

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