2013 ~ Ladri Di VHS

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lunedì 30 dicembre 2013

MOEBIUS


Regia: Kim Ki-duk
Origine: Corea del Sud
Anno: 2013
Durata: 90'
Attori Principali: Cho Jae-hyun, Seo Young-ju, Lee Eun-woo

Moebius di Kim Ki Duk non si può considerare un bel film, no per nulla, non si può considerare nemmeno un film da consigliare o da visionare con amici e partner, questo perchè il film è violento, spinto, estremo, senza darsi un limite, talmente spinto che diventa grottesco fino a toccare punte di ridicolo (la scena del pene sotto il camion mi rimarrà nella testa per anni).
La pellicola usa solo le immagini per comunicare, infatti non c'è neanche un dialogo né un accenno di musica, tutto il film è solo carne.


Ricordati, gli stiamo facendo un favore.

Carne che gode, carne subdola, carne che soffre, carne che piange, carne che sanguina fino a diventare carne infetta, portando l'ultima follia a trasformarsi in spirito o almeno è quello che i personaggi e il pubblico vorrebbero.
Questo ultimo parto del regista coreano è il suo personalissimo Kali Yuga, piena di conflitti e fallocentrica, probabilmente da qui non ci sarà ritorno e non ci sarà soluzione ma solo autoflagellazione, perchè il dolore e il piacere saranno il filo conduttore di tutto.


Il film è un dramma composto da un triangolo fortissimo, vi sfido comunque a leggere la trama su wikipedia senza ridere, ridotta a due righe questa storia sembra creata dalla mente di  Lloyd Kaufman (il capo della Troma).

"Lui ha un'amante. Il figlio vede il padre con l'amante. La moglie decide di evirare il marito, ma non riuscendoci, evira il figlio che si masturbava pensando all'atto sessuale consumato dal padre. Padre e figlio cercano un modo per provare piacere senza pene. Lo trovano procurandosi un forte dolore. Il figlio si innamora dell'amante del padre, partecipa ad uno stupro ai danni di lei e poi prova piacere facendosi da lei accoltellare.
Quando finalmente il figlio si fa trapiantare il pene del padre [...] scopre che riesce ad avere una erezione solo con la madre."

Qui Jackie Chan direbbe "my brain is full of fuck", ed è quello che ci si ripete durante tutta la visione.


Ho passato 1 ora e mezza così.

Descritta così probabilmente la pellicola potrà sembrare uno scempio immerso tra sindrome di Edipo, cazzi e Freud ed in parte lo è veramente, però non ho mai sofferto fisicamente (in senso positivo) così tanto durante la visione di un film.
Intriso di ottimi spunti, belle metafore e quell'accenno di spiritualismo che mi manda in solluchero, va visto solo se amanti dell'estremo e si sa a cosa si va in contro.

Noi della Lega Corea Sud ce l'abbiamo duro.

Endrio Manicone

domenica 22 dicembre 2013

I SOGNI SEGRETI DI WALTER MITTY


Regia: Ben Stiller
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 114'
Attori Principali: Ben Stiller, Sean Penn, Kristen Wiig, Shirley MacLaine

Che ci crediate o no, la gente ancora al cinema ci va, strano ma vero, eppure esiste anche questa strana cosa oltre uTorrent. Quindi, visto che esiste un luogo così strano ho deciso di andare a vedere I sogni segreti di Walter Mitty, film diretto e interpretato da Ben Stiller. Una commedia come Cristo comanda. Ottima (sì, ottima) regia, gran ritmo, belle musiche (quando è partita Wake Up degli Arcade Fire mi sono commosso, che tenerone). E forse è proprio il titolo di questa canzone che ci suggerisce una sintesi per questo film. Svegliarsi. Sì, svegliarsi. Lasciare da parte, per quanto possibile, una razionalità che tende ad appiattirci e seguire un po' quello che la giornata ci riserva, facendoci guidare dall'istinto e uscendo da una gabbia sociale che ci vuole come semplici formichine ammaestrate e pronte a essere sbeffeggiate in qualunque momento dalle cicale goderecce, strafottenti che, in questo caso, non si esentano dal licenziare gran parte di una redazione da tanto dedita alla buona riuscita di questa rivista dal titolo Life.

                 

Stiller riesce quindi a trattare anche un argomento spinoso come l'attuale crisi economica e finanziaria, senza troppi sentimentalismi scadenti, ma al contrario con semplicità e acume, descrivendo anche un mondo ormai digitalizzato e che preferisce vivere esperienze sui social network piuttosto che prendersi la briga di provare a viaggiare, di visitare posti al di fuori di Phoenix. Bella la sua scelta, inoltre, di optare per dei campi lunghi, quasi a voler evidenziare il piccolo, piccolissimo ruolo che l'uomo ricopre rispetto alla grandezza del mondo, un mondo tutto da scoprire, risultando come un approccio molto funzionale specialmente nella prima parte del film, svolta in interni a differenza della seconda parte che è molto più aperta. 



Parlando del personaggio principale, Mitty è uno a cui piace sognare, a cui piace esulare dalla sua reale esistenza, un po' come tutti alla fine, ma che non trova mai occasione di uscire da questo suo guscio, fino a quando sarà costretto per esigenze lavorative a prendere il toro per le corna e cambiare radicalmente il suo modo di vivere e la sua prospettiva nei confronti di quello che lo circonda. E nel momento in cui è il centro di una serie di avventure (reali) quasi non crede di essere riuscito a spingersi così lontano. La cosa più straniante di questo film, e di riflesso la cosa migliore, è il fatto che Stiller giochi con noi, inserendo spesso digressioni oniriche di Mitty che si incanta immaginando un futuro o un presente diversi da quelli che si aspetta e in cui è, tanto che a un certo punto inizi a chiederti "ma stata succedendo davvero o Mitty si è incantato nuovamente?". Quindi, senza essere troppo ripetitivi, è un film veramente ben fatto, ben girato e che potrebbe stupire i più che pensano che Stiller sia solo un buon attore e basta. Da questo film trapela davvero qualcosa in più, invece.



Daniele Morganti

domenica 1 dicembre 2013

PRISONERS


Regia: Denis Villeneuve
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 153'
Attori Principali: Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal

Quando attendi un film da molto tempo il rischio di rimanere deluso è sempre alto, altissimo. I passi falsi sono dietro l'angolo, a maggior ragione quando si tratta di thriller, un genere che, come ovvio che sia, è ricco di sfaccettature. Più sfaccettature sono presenti nel film, più c'è il rischio di girare una boiata. Fortunatamente non è il caso del nuovo lungometraggio di Denis Villeneuve. Un thriller brillante, calibrato, mai esagerato, mai sottotono. Un film simbolico, giocato molto, a partire dal titolo, da un elemento come la prigione. Più mentale che fisica è il caso dire. I personaggi in molti casi sembrano perdersi letteralmente in un circolo vizioso privo di risposte e pregno di enigmi, di simboli appunto. Personaggi che si affidano alla fede, all'istinto, alla violenza e anche, perché no, alla paura. Ne esce il ritratto di una nazione alla ricerca di sé stessa, che lotta per non perdersi in questo labirinto senza apparentemente via d'uscita, dove la violenza diventa l'unica vera arma per esprimersi (fino a un certo punto).



Con buona pace del Dr. Cox, inoltre, è il caso di elogiare l'interpretazione di Hugh Jackman, di un'intensità dirompente, capace di rendere al meglio in un ruolo così contraddittorio, ovvero quello di un padre privato della propria figlia, ma privato anche della sua capacità di controllare e di proteggere la sua famiglia, della sua capacità di "essere pronto", come dice egli stesso a suo figlio all'inizio del film. L'ambiguità di questo personaggio si esplica in maniera chiara nel suo controverso rapporto con la religione, con Dio (poi vedrete oh, non posso dirvi tutto). Se da un lato, però, la regia sembra presa da movimenti di macchina a tratti ripetitivi, il tutto è amalgamato alla perfezione anche dalle prove degli altri attori. A partire da Jake Gyllenhaall, anche lui ottimo. Grazie alla sua espressività, giocata molto sul tic nervoso agli occhi, ai suoi toni e, perché no, al suo carisma, dà corpo e voce a un personaggio fantastico, solo contro tutti, così nella vita come nella sua professione che cerca sempre di onorare al meglio, grazie a un profondo senso di giustizia. Un personaggio ossessionato da questo caso, dalla gente che gli gravita intorno e, a differenza di Keller, da uno scetticismo di fondo nei confronti della fede. Due personaggi che si scontrano ma che sono uniti dalla ricerca del rapitore.



Ne esce fuori un film destabilizzante, che spiazza, che descrive la violenza senza compiacimenti di sorta ma al contrario ne offre un ritratto altamente negativo, in un tête-à-tête tra uomo e pulsioni violente che non può che sfociare in riflessioni sulla natura umana e sui rispettivi limiti della stessa. L'atmosfera, già cupa di per sé per il contenuto, viene accentuata ancora di più dall'ambientazione; le nuvole e la pioggia la fanno da padrone, rimandando un po' anche al Se7en di David Fincher, in cui la pioggia scandiva continuamente le vicissitudini dei protagonisti. Una cosa che stona è il poco spazio, di fatto, dedicato al personaggio interpretato da Paul Dano, ma non mi sento di dire niente di più, se non che l'attore appena citato è tanto sottovalutato quanto bravo (guardatelo ne Il Petroliere, provare per credere).



Dal punto di vista della regia, come già detto, non ci sono sbavature evidenti, anzi, è una regia poco invadente e gestita benissimo, che ama indugiare alla spalle dei protagonisti e ottenere, grazie a un ottimo reparto fotografico, delle immagini che funzionano alla grande e che colpiscono. Altro merito del regista e degli sceneggiatori è quello di non aver allungato troppo il brodo, di non aver dilatato una narrazione già ricca di per sé e allo stesso tempo di non aver lasciato nulla al caso. Equilibrato. Un'esperienza, insomma, da fare assolutamente perché, nel bene o nel male, nel nostro piccolo abbiamo tutti delle prigioni da cui cerchiamo di evadere, che sembrano invalicabili, contro cui smettiamo di combattere, per poi capire che bastava solo spingersi un po' più in là.



Daniele Morganti


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