gennaio 2014 ~ Ladri Di VHS

66° Berlin International Film Festival

A Berlino dall'11 al 21 Febbraio 2016.

69° Festival de Cannes

A Cannes dall'11 al 22 Maggio 2016.

73° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica

A Venezia dal 31 Agosto al 10 Settembre 2016

martedì 28 gennaio 2014

GRAVITY


Regia: Alfonso Cuarón
Origine: USA, UK
Anno: 2013
Durata: 90'
Attori Principali: George Clooney, Sandra Bullock

Non si tratta di sicuro del miglior film sullo spazio, ma di certo siamo davanti al primo film verosimile ambientato nello spazio. Almeno nelle intenzioni qua è tutto vero. Ci sono solo le stelle, la terra, la tecnologia. L'aria e i cinque sensi. L'essere umano. C'è una eterna fluttuazione che non fa mai girare la testa ma che culla.



Cuarón è un regista di videogiochi; i lunghi piano sequenza sono i filmati che introducono al capitolo successivo, alla nuova sfida del prossimo livello. Le soggettive sono l'azione; con i continui report sullo stato dell'O2, sulle distanze, sui tempi. Ci sono i checkpoint e la ricerca del tasto giusto e uno sfondo che si muove lento. La musica è presente nella quasi totalità  del film, come nei videogiochi appunto. Non prende mai il sopravvento e sostituisce il silenzio che si presenta però, facendoci esplodere la testa. Quei pochi secondi sono esemplari di come l'assenza di suono in un film possa stordire, solo in questo tipo di film però tale scelta è azzeccata.


Cercare qualcosa di più di un giro a Gardaland sarebbe un'operazione ingenua e controproducente. Allo spettatore riguardo ai temi alti viene data carta bianca. Le questioni umane servono solo a dare un tocco di fragilità, efficaci nell'economia della storia. Ma non sono il vero obbiettivo di Cuarón che vuole solo terrorizzarci informandoci su quanta aria ci resta.





Giuseppe Bonafede

lunedì 20 gennaio 2014

12 ANNI SCHIAVO


Regia: Steve McQueen
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 134'
Attori Principali: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch

Per fortuna, pochi di noi hanno visto un uomo piangere sul serio. Avete mai visto un uomo piangere in un modo che è difficile definire "piangere"? Consigliare la visione di questo film è difficile. Le torture fisiche e morali sono qualcosa di già visto forse, ma in questo modo mai. McQueen analizza in modo dettagliato il rapporto servo-uomo libero. Certosino e naturale come un quadro. Come una natura morta o una veduta. McQueen attraverso i ritratti di questi "uomini liberi" ricostruisce gli anni di un uomo che va svuotandosi nel tempo realizzando il sogno di ogni padrone di possedere un automa.


I bianchi non sono solo padroni che puntano a massimizzare gli introiti sfruttando la manodopera. Non si tratta neanche di superiorità razziale o di rapporto uomo-animale (visto quanto sullo sfondo rimangono le argomentazioni a proposito). I bianchi riversano sugli schiavi tutta la rabbia per i propri fallimenti. I neri sono cavie per gli esperimenti di isteria coniugale. I padroni sono patetici perché lo schiavismo è tutto quello che hanno. 


McQueen sembra aver girato la trilogia della sofferenza. Se la scommessa per quest'episodio era "il tema universalmente condiviso" la prossima potrebbe essere quella della commedia o del thriller. Difficile trovare un regista al giorno d'oggi che riesca a calibrare bene ogni elemento. Dotato di un senso estetico e umano rarissimo. Come quando nelle fasi iniziali mischia musica e suoni diegetici come un dj. Mettendo a tempo preghiere e frustrate, sberleffi e falciate. Metafora di un mondo che ha un tempo tutto suo. E che Solomon farà bene ad accettare per sopravvivere.


Giuseppe Bonafede






giovedì 16 gennaio 2014

LA MAFIA UCCIDE SOLO D'ESTATE


Regia: Pif
Origine:  Italia
Anno: 2013
Durata: 90'
Attori Principali: Pif, Cristiana Capotondi

Alla notizia che Pif avrebbe girato un film, il primo pensiero che ha attraversato il mio cervello è stata una frase simile a: "Ma in questo stronzo Paese è possibile che si faccia fare cinema ad uno solo perchè è diventata la celebrità del momento?". Ovviamente la risposta è sì, siamo in Italia e se Johnny Groove può diventare il protagonista di un film Pif può tranquillamente fare il regista. Per chi non lo sapesse Pierfrancesco Diliberto in arte Pif è un personaggio televisivo, prima inviato della trasmissione di Italia 1 "Le iene", ora conduttore di un suo programma su Mtv intitolato "Il testimone", ciò che non tutti sanno e che io stesso ignoravo fino a quel momento è che Pif non era del tutto estraneo al mondo cinematografico, egli infatti è stato aiuto regista di Marco Tullio Giordana nel noto lungometraggio "I cento passi", film che tratta la storia di Peppino Impastato. Contrariamente alle aspettative la visone del trailer "La mafia uccide solo d'estate" mi incuriosì e complici i tanti pareri positivi letti in vari blog e alcune circostanze, decisi di andare in sala a vederlo, non sapendo se aspettarmi come istinto suggeriva qualcosa di deludente o se abbandonarmi alla speranza di vedere quel piccolo miracolo di cui avevo letto in qualche lido.


La trama è semplice: Arturo è un giovane ragazzo palermitano che vive nel capoluogo siciliano durante le guerre di mafia che in quegli anni insaguinarono la città, questi particolari avvenimenti influiranno sulla sua vita fino a condizionarne il quotidiano oltre che la sua formazione morale e professionale, insieme al piccolo Arturo, un personaggio costante della storia è Flora, la compagna di classe, della quale si invaghisce e ne coltiva il segreto amore pure in età adulta. Il film è diviso in due parti ben distinte, una in cui si narra di Arturo da giovane (interpretato da un buon Alex Bisconti) e una seconda in cui il protagonista cresciuto si trova alle prese con problemi di vita non più scolastica ma lavorativa (quì invece incarnati da un poco credibile Pif).


Parlando dei pregi del film possiamo citare una buona fotografia e una regia inaspettatamente gradevole, gli interpreti, senza particolari vette sono tutti ben inseriti nel proprio ruolo ad eccezione di Pif che mostra tutte le sue lacune attoriali, in qualche caso si nota la presenza di personaggi gratuito di cui si poteva fare a meno ma nulla che risulti fastidioso. Sfortunatamente, nonostante i pregi riscontrati, il risultato finale non è affatto riuscito e il motivo è principalmente uno: non ha saputo osare. Se si avesse avuto il coraggio di dare al film tratti più autoriali e meno "televisivi", potremmo sì parlare di un buon film, e invece diverse scelte sempliciste affosano l'opera, una su tutte la voce fuori campo di Pif che spiega in modo didascalico e petulante gli avvenimenti che si susseguono, con toni che richiamano il peggior cinema popolare, atto a invogliarsi un pubblico pigro poco attento all'aspetto artistico dell'opera. Partendo dal presupposto che è giusto spiegare certi passaggi visto che il film deve essere comprensibile anche a chi non è a conoscenza degli avvenimenti storici, lo si dovrebbe fare con una soluzione più raffinata  e non con scelte così semplicistiche. Sempre per il poco coraggio accade che la storia sentimentale del protagonista sovrasti il racconto storico, lasciando così il tema importante come sfondo e quello velleitario diventa così il fulcro della vicenda, perdendo così il suo potere di denuncia.


Non manca qualche momento riuscito, anzi le caratterizzazioni dei mafiosi tratteggiati con toni ridicoli e infantili ma con intatta la loro sgradevolezza, sono attimi di comicità davvero interessante, peccato che questi episodi siano centellinati, si fosse puntato di più sullo scherno alla malavita organizzata si sarebbe raggiunto il risultato di trattare un tema importante con toni leggeri, lasciando integro il messaggio sociale. In conclusione, seppur viva qualche momento piacevole, il risultato sembra un grande "potrei ma non voglio" e questo rende ancora più amara la visione di quella che con le giuste direttive sarebbe stata una commedia notevole.


p.s. Non mi pronuncio sull'uso della computer grafica ad inizio film solo perchè sarebbe come sparare sulla croce rossa.



Axel Spinelli

mercoledì 15 gennaio 2014

DALLAS BUYERS CLUB [doppia recensione]


Regia: Jean-Marc Vallé
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 117'
Attori Principali: Matthew McConaughey, Jennifer Garner, Jared Leto

Ci troviamo di fronte a uno dei titoli più apprezzati dalla critica e dal pubblico d'oltreoceano nel 2013. Lo dico subito, le aspettative non sono affatto deluse. Il film è ispirato alla storia vera di Ron Woodroof, un texano dedito agli eccessi della vita, che si ritrova malato di HIV per colpa di un rapporto non protetto con una donna. Siamo negli anni '80 all'inizio della diffusione del virus, il periodo in cui era la malattia dei froci e questo, per Ron omofobo fino al midollo, è motivo di discriminazione tra i suoi amici. I medici gli danno non più di trenta giorni di vita e per altro non hanno nessuna cura nemmeno per rallentare l'infezione. Non volendosi arrendersi, Woodroff inizia ad informarsi da solo e, dopo aver provato una medicina dannosa, si ritrova in Messico, dove un dottore radiato gli prescrive un cocktail di farmaci che sembra funzionare. Inizia ad importare illegalmente negli Usa questi farmaci per venderli alla comunità gay anche grazie all'aiuto di un transessuale di cui diventa socio e amico. Al principio era solo un modo per fare soldi ma, in seguito, lo scopo primario diventa una battaglia contro il sistema medico e gli interessi della case farmaceutiche. Dovevano essere 30 giorni... sono stati più di 2000.




La prova di  McConaughey è magistrale. Dimagrito fino a quasi diventare scheletrico, rende davvero convincente il dramma di un uomo gretto e rozzo che lotta per sopravvivere e per far ricredere i medici. Molto toccante il rapporto di amicizia con il transessuale che gli farà cambiare opinione sui gay. Da segnalare l'altrettanto ottima prova di Jered Leto, cantante dei 30 second to Mars, che interpreta il giovane transessuale. Il regista Jean-Marc Vallée fa un lavoro encomiabile senza troppi fronzoli, con una regia secca e asciutta, lasciando che la storia, già di per sé forte, scorra da sola senza voler aggiungere nulla. È di certo un gran film.

Pablo Lombardi





Dallas Buyers Club è, innanzitutto, la dimostrazione che Matthew McConaughey abbia deciso davvero di spaccare il mondo con le sue interpretazioni. Senza dilungarmi troppo, un paio d'anni fa ha capito che era giunto il momento di fare sul serio, e questa sua nuova tendenza, questa sua nuova attitudine, questo suo nuovo approccio si è espresso nel migliore dei modi prima con Killer Joe di Friedkin, poi in MUD di Jeff Nichols (che la distribuzione italiana, per ora, ha pensato bene di snobbare), due film che ritengo piccoli - ma non troppo - capolavori della moderna cinematografia americana.


Poi? Poi Matthew ha pensato bene di oltrepassare un limite, fisico prima di tutto. E ha deciso di accettare questa bellissima parte in Dallas Buyers Club. Dimagrito di una ventina di chili, decide di dare anima e corpo a un personaggio magnifico, quello di Ron Woodrof, menefreghista, omofobo, razzista, che si ritrova positivo al test dell'HIV, nel periodo di maggiore diffusione del virus in America, e a cui i dottori danno 30 giorni di vita. Inizia così in primis una lotta contro sè stesso, che inizia ad accettare il "diverso" che aveva sempre schifato in precedenza. Questo diverso che si palesa nella figura di Rayon, interpretato da un grande Jared Leto, darà la spinta a lui di cambiare atteggiamento nei confronti dei tanto odiati "faggots", i tanto odiati omosessuali. Darà la spinta, poi, per cercare cure mediche alternative (e più funzionali di fatto) a quelle proposte dalle case farmaceutiche, espressione più che mai in questo film di un fastidiosissimo problema di conflitto d'interesse.


Si sfocia nella commozione, nell'empatia per un personaggio del genere, bramoso di godersi una vita che è una, e con la paura di cercare di vivere per una vita che può spegnersi da un momento all'altro. Con la paura di non avere dato un senso alla sua vita, paura sacrosanta ma sventata dalla sua dedizione nel curare persone nella sua stessa situazione. Un film con alcuni momenti davvero potenti, che lasciano di stucco, basti pensare alla scena in cui lui realizza di avere davvero contratto il virus (dopo lo scetticismo con cui aveva accolto il responso dei medici), ripensando a una delle sue notti brave, mix di rapporti non protetti con prostitute ed eroina. Il gioco di montaggio in questa scena è ottimo, e per questo bisogna ringraziare il regista Jean-Marc Vallée che con una regia classica, pulita e volutamente dimessa a volte, riesce a raccontare questa storia senza patetismi, spremendo fino all'ultimo i suoi incredibili attori e dando vita a un film bellissimo. 



Un film che parla di discriminazione, di gente che volta le spalle ad amici decennali per un semplice sospetto, della rabbia di una provincia americana nei confronti di tutto ciò che non è inquadrabile, dell'ingiustizia percepita da migliaia di malati per non poter usufruire di proteine non dannose ma non approvate dalla FDA, dedita invece a vendere (o a spacciare?) il proprio prodotto, l'AZT. E anche qui c'è spazio per un riflessione, su chi siano i veri spacciatori tra Woodrof e la FDA, che ha il suo apice nello scontro verbale in cui le due parti non se le mandano a dire, finendo poi in tribunale dove il giudice si rende comunque conto della mancanza di buon senso della legga americana in materia. Infine, vorrei fare una considerazione sul finale: l'ho visto come un apice ideale di una storia che alla fine parla di redenzione, un finale catartico, depurativo, in cui Ron Woodrof torna Uomo (la U maiuscola non è un caso) e rende noi spettatori, perché no, un po' più umani.




Daniele Morganti

sabato 11 gennaio 2014

PERSONA


Regia: Ingmar Bergman
Origine:  Svezia
Anno: 1966
Durata: 85'
Attori Principali: Bibi Andersson, Liv Ullmann

E' difficile cercare di recensire in maniera adeguata un film. Figuriamoci se si tratta di Ingmar Bergman. Ebbene, un tentativo vorrei farlo, partendo da questa premessa determinante: Persona è il suo primo film in assoluto che vedo. Quindi non me ne vogliate se dirò boiate. Su Bergman c'è da dire innanzitutto che è considerato l'erede cinematografico di Munch, un pittore che faceva della morte, dell'angoscia esistenziale e della ripetitività della vita borghese i suoi temi principali. Detto questo, esaminiamo il film. La trama è incentrata sulla figura di Elisabeth, interpretata da Liv Ulhman, attrice che durante una rappresentazione teatrale, si blocca e inizia inspiegabilmente a ridere. In seguito si chiude in un volontario mutismo e viene ricoverata in una clinica, dove la dottoressa decide di affiancarle un'infermiera per cercare di farla uscire da questo status e decide di mandare le due donne nella sua casa al mare per dedicarsi a un periodo di riposo e riflessione che pensa possa giovare a Elisabeth. 



Bergman, da questo momento in poi, si dedica ad un incontro/scontro tra le due. Un incontro fatto di segreti confessati, di lacrime, di amore, di tradimenti, di odio, di rabbia. Arrivando poi a mescolare completamente le due personalità, giocando in maniera destabilizzante e concitata con la nostra mente. Grande ruolo ricopre il tema della maschera. La maschera che si è costretti a indossare per risultare credibili in un determinato ambito, in una determinata società. Non a caso questo è un film impregnato anche nella psicoanalisi. Jung, infatti, intendeva il termine Persona nel suo significato latino di Maschera. E' chiaro soprattutto nella parte finale, nel faccia a faccia decisivo, dove Bergman, in maniera geniale, decide di riprendere la scena due volte da entrambi i punti di vista delle due protagoniste, dando vita a una scena magica e lirica. Ingenuamente, prima di immergermi in questo film, pensavo di ritrovarmi davanti a un film fatto di poche, pochissime parole. Invece mi sbagliavo. I dialoghi ci sono eccome, c'è tempo anche per veri e propri soliloqui, fino a rendersi conto che altro non è che un continuo soliloquio visto il mutismo di Elisabeth e la grande voglia di comunicare e di sfogarsi di Alma.



Ho visto in questo film una lucidissima analisi su quanto sia fastidioso accorgersi della precarietà della vita stando a contatto con persone che non fanno altro che mostrarci la loro ipocrisia che in un determinato momento diventa anche la nostra. Due facce della stessa medaglia, della stessa incapacità di andare avanti e di staccarsi da un passato fatto di sofferenza e di scelte sofferte. Importante anche la riflessione su quanto l'odio sia parte integrante dell'uomo e su quanto si è accondiscendenti quando questo odio emerge. E' indubbio sottolineare il carattere palesemente metacinematografico del film, un carattere espresso simbolicamente (ma non troppo) nelle scene iniziali e nella scena finale con l'immagine della bobina ormai logora e infiammata. Vi consiglio caldamente di vederlo, anche perché non vorrei che poi vi troviate a dover sfidare a scacchi la Morte per lenire a questa mancanza. Scherzi a parte, godetevelo perché è un film che brucia dentro, proprio come la bobina.



Daniele Morganti

venerdì 10 gennaio 2014

BLUE JASMINE


Regia: Woody Allen
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 98'
Attori Principali: Cate Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin

C'è qualcosa che rende lo sguardo di Allen sempre interessante. Le coppie ad esempio, nonostante siano tutte un disastro, fanno venire voglia di primo appuntamento. O di tradire la propria fidanzata con le protagoniste femminili. Odio frasi come “bella e brava" ma Jasmine è interpretata da una clamorosamente bella e brava Cate Blanchett. La sua performance è un saggio sul linguaggio non verbale. Jasmine si imbarazza, si infastidisce. Ha voglia di evadere da ogni situazione nella sua nuova vita da povera. Ogni volta che qualcuno prova ad avvicinarsi si ritrae. Se la saluti con un bacio si allontana (nonostante a Parigi, città dalla quale non esita a dirci d'esser appena tornata, ci si saluti così). La scrittura nella prima mezzora è puntualissima. Quando nella vita da ricca la differenza di classe con la sorella si palesa fa dei complimenti falsi. Da povera se la infastidiscono facendo conversazione diventa sgarbata. Cercando di apparire preziosa, non potendo essere ricca. 

Il film peggiora intorno al 45' quando si calca un po' la mano con l'esaurimento nervoso; tra capelli unti che fanno trasandata e dialoghi che accontentano la  trama. Iniziamo ad immaginare il momento in cui Jasmine riuscirà ad apprezzare la vita semplice. Grande pregio di Blue Jasmine è però quello di evitare la morale. Peccato poi che alla fine la storia si trasforma nell'ennesima indagine sulla vita amorosa.

Lontano dalla pro-loco Allen lavora meglio. In poche scene ritrae l'America della crisi, una donna dalla personalità costruita a tavolino e il conflitto interiore tra l'obbligo di sentirsi buona e l'esserlo veramente. Preoccupato com'è a investigare ancora una volta il rapporto di coppia perde però l'occasione di dirigere un piccolo capolavoro. Allen è uno dei registi più riconoscibili della storia. Ciò rende la visione di un suo nuovo film un'esperienza rassicurante. A prescindere dall'effettiva qualità. 


Giuseppe Bonafede



giovedì 9 gennaio 2014

THE BUTLER


Regia: Lee Daniels
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 113'
Attori Principali: Forest Whitaker, John Cusack, Robin Williams

Non sapendo cosa guardare decido per The Butler solo ed esclusivamente per la presenza di Forest Whitaker. Le aspettative non sono alte temendo un film pieno di buoni sentimenti e di retorica buonista che renderebbero la storia vera di Eugine Allen, nel film con il nome di Cecil Gain, poco più che una favola.




In breve il film tratta della vita di Cecil, interpretato da Whitaker, a partire dalla sua infanzia nei campi di cotone, fino ad arrivare ad essere il maggiordomo degli uomini più potenti del mondo. Parallelamente, attraverso suo figlio Luis, vengono narrate le vicende della lotta per i diritti civili degli afro americani.

Il film è molto scorrevole e, per scelta registica, la parte storica è presente senza però essere approfondita in maniera particolare. Ci si aspetterebbe, quindi, un approfondimento del lato umano e dei rapporti tra i personaggi che spesso, però, viene un po' lasciato sullo sfondo, sopratutto nei momenti chiave della vita di Cecil. Ed è la pecca più grande del film che resta sospeso a metà strada tra il mero racconto degli avvenimenti e quello delle emozioni. Visto la presenza di un attore importante come Forest e di una soprendente Oprah Winfrey, sarebbe stato interessante dedicarsi alla parte umana.




Alla fine del film, una parte di me è soddisfatta perchè il tema è affrontato in maniera onesta e sincera senza creare facili sensazionalismi a cui il tema si presta, un' altra parte è delusa dalla piccola occasione persa per fare di The Butler un ottimo film. Un piccolo passo indietro da parte di Lee Daniels rispetto a Precius.






Pablo Lombardi


mercoledì 8 gennaio 2014

ARRIVEDERCI AMORE, CIAO


Regia: Michele Soavi
Origine: Italia
Anno: 2006
Durata: 105'
Attori Principali: Alessio Boni, Michele Placido, Isabella Ferrari

Era il 2006 l'anno in cui "Arrivederci amore, Ciao" vide luce nelle sale cinematografiche italiane. Michele Soavi ben dodici anni dopo la sua ultima fatica cinematografica riesce a tornare sui grandi schermi, un allontanamento non propriamente voluto, dopo gli ultimi incassi medio-bassi del film "Dellamorte dellamore" le difficoltà nel trovare un produttore divennero maggiori e questi ripiegò la sua arte al servizio televisivo iniziando a dirigere diverse film e telefilm tv, delle volte con risultati apprezzabili (come il notevole "Uno Bianca"), altre volte solo come mestierante, dopo questa lunga parentesi il regista milanese ritorna al cinema e ritrova un'indipendenza artistica che la tv non gli poteva dare, quindi dopo anni di gestazione riesce a partorire un film discostandosi dall' horror che lo aveva reso celebre tra gli amanti del genere decide di approdare al noir trasponendo l'omonimo romanzo di Massimo Carlotto.




La trama è abbastanza fedele a quella cartacea: Giorgio Pellegrini (Alessio Boni), ex-terrorista rosso, a causa di una pena da scontare in Italia è rifugiato in sud america in un esercito di rivoluzionari, riesce a tornare in Italia e grazie a delle scorrettezze a evitare la galera, nonostante ciò sin da subito è oggetto di ricatti da parte del capo della Digos Ferruccio Anedda (un Michele Placido in grande spolvero) che lo lascia in libertà con l'aperta intenzione di poterlo sfruttare non appena l'occasione lo richiede. Non intenzionato a tenere un tenore di vita mediocre, il protagonista si dedica ad attività oltre il limite della legalità e nonostante ad un certo punto, raggiunta la stabilità economica provi a iniziare una vita onesta il passato tornerà a tormentarlo.





Soavi dirige un noir spietato, cupo, teso e violento, ci scaraventa in un mondo dove nulla si salva e tutto sembra irrimediabilmente marcio: dalla società, alle istituzioni non si risparmia nessuno e per tutto il film non sembra esserci uno spiragio di luce, il protagonista stesso non è presentato con toni simptici o esaltanti per il quale possa nascere empatia, Boni è un bastardo, una carogna, un vigliacco, un approfittatore e sono queste le ragioni per cui riesce a farsi strada in un contesto sociale dove ognuno dietro una maschera nasconde la propria meschinità.





Il regista milanese non risparmia e non si risparmia, con la macchina da presa da sfoggia di un'ottima tecnica e non mancano i momenti notevoli anche grazie al supporto di una colonna sonora degna di tale nome.
Tirando le somme il risultato è un ottimo film che ovviamente in Italia ai tempi non riuscì a coprire neanche i costi di produzione e mentre da noi nessuno gli dava il giusto spazio in Francia la rivista Mad Movies gli dedicava ben sei pagine definendolo (pur con qualche esagerazione) il miglior noir degli ultimi 20 anni.
Dal canto mio io qualche imperfezione nella recitazione di Boni l'ho trovata, così come la fotografia appare troppo televisiva e certo con qualche soldo in più di budget si sarebbero potuti curare meglio alcuni particolari, fatta questa critica resta il grande rammarico che un film di tale caratura in Italia è passato praticamente inosservato e Soavi ancora una volta sia tornato a girare fiction televisive senza mai avere la giusta considerazione delle sue abilità.
Certo ora è tardi per rimediare mase avete un paio d'ore di tempo spendetele per questo film, lo merita e ve lo meritate.







Axel Spinelli

martedì 7 gennaio 2014

UPSTREAM COLOR


Regia: Shane Carruth
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 96'
Attori Principali: Shane Carruth, Amy Seimetz

Dopo essere rimasto affascinato dal precedente film di Shane Carruth, il sorprendete Primer, fatto con ben 7000 $ mi ritrovo con grosse aspettative. Con Upstream color ha speso la stessa cifra e ha creato un' altra piccola perla. Questo film è il degno proseguimento logico del precedente. Ci si ritrova sempre immersi in un tipo di racconto visivo astratto e senza tutte le risposte date dall'autore con una trama complessa e multisfaccettata che si presta a diverse chiavi di lettura.



Trama: la bella Kris,  Amy Seimetz, viene drogata con una sostanza sintetizzata da un bruco e derubata di una grossa somma di denaro. L'incontro con Jeff , lo stesso Caruth davvero tuttofare, l'aiuterà a cercare di scoprire pezzi di verità. Il cinema di Caruth è fatto di pochi dialoghi, di sguardi, di paure ancestrali. Si è trasportati da un insieme di sensazioni che mettono quasi in secondo piano la narrazione della storia.



È un cinema che non da risposte ma aumenta le domande e i dubbi. Si viene trascinati nel mood del film in balia del regista, condotti in un vortice in cui i ricordi dei due protagonisti si mescolano senza più sapere chi dei due ne sia il proprietario. Si perde di vista la realtà dei fatti per entrare in un mondo più complesso fatto di paure recondite di non riuscire più a ritrovare sè stessi, le stesse degli interpreti. Di sicuro è una pellicola  che non può lasciare indifferenti: la si ama o la si odia. Il tutto condito da una regia ottima e da una prova molto convincente degli attori. É il trionfo del cinema delle idee, nell'attesa di vedere al più presto un altro suo film.




Pablo Lombardi




sabato 4 gennaio 2014

AMERICAN HUSTLE


Regia: David O. Russell
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 138'
Attori Principali: Christian Bale, Bradley Cooper, Amy Adams, Jennifer Lawrence, Robert De Niro

Devo dire, molto bello "American Hustle", un film che viaggia un po' a sprazzi (pur restando sempre su livelli buoni), ma che quando si accende regala almeno 5-6 momenti di grande cinema, di quello che può aspirare ad una dimensione iconografica. David O. Russell, dal canto suo, continua il suo canto verso il cinema "che gli ha salvato la vita" (testuali parole), tirandolo fuori dalle sue crisi nervose, dal malessere per un figlio bipolare, dal divorzio e dalla depressione. Rispetto, però, a "The Fighter" e soprattutto a "Il lato positivo", che erano due simboli di lotta, a tratti anche ingenua, contro le asperità della vita, qui c'è una maggiore consapevolezza, che si fonde con una nota di amarezza e uno sguardo sulla realtà, che increspa il grande gioco di affabulazione del cinema. Perché "American Hustle" non è un mero strumento per mettere in luce i suoi attori, tutti bravissimi, specie Amy Adams (purtroppo col doppiaggio si perde la sua abilità a giocare con gli accenti) e Jennifer Lawrence, quanto piuttosto una riflessione su come la vita sia una finzione, un insieme di pailettes e lustrini (da qui il risalto per l'ambientazione seventies), di abiti da indossare (come quelli che vengono abbandonati nella lavanderia di Bale), che dissimulano una grande solitudine interiore e una malinconia che non sembra trovare carezze altrui.



Ed in questo deserto interiore, per costruirsi la propria oasi, ecco allora che bisogna sporcarsi le mani, immergersi nelle pieghe di una morale relativizzata e che fa perdere l'orientamento su quale sia il (manicheo?) giusto e sbagliato, come riaffermato beffardamente procedendo verso il finale. In quest'ottica, appare, dunque, chiaro, come il cinema sia l'arte (per quanto nel film si parli anche di pittura e musica) che più di tutte racchiude l'essenza della vita, soprattutto per il ruolo degli attori, che vengono messi al centro di tutto, nel loro triplo ruolo di persone che interpretano personaggi che interpretano altre identità, scarnificando una trama che viaggia in sottofondo e che serve a supportarli in quanto emblema del grande teatro tragicomico dell'essere umano. Se la vediamo da questa prospettiva, allora, per quanto siano evidenti gli omaggi a Scorsese, ed in misura minore a Tarantino, "Boogie Nights" e "La Stangata", c'è anche una luce profondamente personale e verace che Russell infonde alla sua creatura e che risulta di gran lunga l'aspetto più apprezzabile di una pellicola, magari non perfetta, ma che di sicuro appare come la più riuscita, matura ed interessante fin qui realizzata dal regista.





Pietro Cangialosi

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