dicembre 2014 ~ Ladri Di VHS

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domenica 28 dicembre 2014

MOMMY


Regia: Xavier Dolan
Origine: Canada
Anno: 2014
Durata: 134'
Attori protagonisti: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément

Dopo cult-movie come J'ai tué ma mère e Tom à la ferme è finalmente arrivata in Italia la quinta fatica di Xavier Dolan alla regia. Accolto trionfalmente a Cannes dove ha vinto il premo della giuria, la pellicola racconta la storia di una madre single che si trova ad affrontare da sola la crescita del figlio quindicenne assai problematico. In suo soccorso arriverà una vicina che rivoluzionerà le loro vite portando una serenità effimera.



Dopo aver affrontato l'argomento madre-figlio nel suo sorprendente film d'esordio, J'ai tué ma mère, il regista canadese ci riprova con questa sua nuova opera. È un film che riprende temi già affrontati dallo stesso regista ma lo fa in maniera nuova e da altre prospettive, aggiungendo nuove esperienze. Non è più solo rapporto a due tra genitore e figlio. Si aggiunge una terza figura che dà ancora più spessore al racconto risultando alla fine la personalità più interessante. Siamo di fronte a scelte coraggiose anche dal punto di vista puramente cinematografico già dalla scelta del formato, non il solito 16:9 ma un'inquadratura quasi 1:1 che permette di vedere quasi sempre massimo un protagonista alla volta come a rappresentare la mancanza di visuale sul futuro dei tre e dando un senso di chiuso allo spettatore. Solo nelle uniche due scene di serenità tutti i protagonisti sono ripresi insieme. Il solo momento in cui sembra esserci un avvenire non scritto lo schermo diventa a grandezza standard. Ben presto, causa ritorno all'isolamento interiore di ognuno, si ritorna alla visione claustrofobica 1:1.



In questo film ci sono tutti i sentimenti che la vita racchiude. Si ride, si piange, si pensa, ci si incazza. La forza assoluta di Dolan è quella di non limitarsi a raccontare una storia ma quella di far entrare l'obbiettivo dentro l'animo delle persone che racconta. È un viaggio al loro interno ma anche nel nostro. Ottima prova di tutto il cast, a partire dal giovane Pilon, perfetto nei sui scatti d'ira, per arrivare alla balbuziente Dorval, di sicuro la miglior interpretazione, passando per la Clément. Si ha come l'impressione che il regista abbia modellato a proprio piacimento gli attori come farebbe un artista con la creta. Quello che più impressiona è come a soli 25 anni abbia ormai acquisito tutti i mezzi tecnici per entrare così in profondità nell'animo umano. La sua forza è quella di non accontentarsi del convenzionale ma neanche di cercare qualcosa di stupefacente a tutti i costi, di rendere il tecnicismo funzionale alla storia e non fine a sé stesso. Se tre indizi fanno una prova qua siamo già al quinto. Ci troviamo al cospetto di un grande autore e regista. Di certo questo film è entrato di diritto nella personale top 5 del 2014.




Al Barbone

martedì 23 dicembre 2014

FURY


Regia: David Ayer
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 134'
Attori protagonisti: Brad Pitt, Shia LaBeouf

Nuova fatica per il regista americano Ayer che si cimenta con una dei temi preferiti della produzione hollywoodiana, il film di guerra. Siamo alle battute finali della Seconda Guerra mondiale con l'esercito tedesco pronto a resistere fino all'ultimo e gli alleati ormai prossimi alla vittoria. Malgrado questo la storia ha bisogno di eroi, in questo caso Brad Pitt, al comando del carro armato Fury e il suo equipaggio composto da altri quatto uomini.


Ci troviamo di fronte a una pellicola che ha intenti chiari: mostrarci l'orrore della guerra, il cameratismo tra l'equipaggio e il coraggio degli americani che hanno salvato il mondo. Peccato che il tutto sia fatto in maniera retorica e senza creare la minima empatia tra lo spettatore e i protagonisti. Per rappresentare il brutto della guerra non basta far schiacciare cadaveri dal carro armato o rendere verosimili le uccisioni. I personaggi non sono per nulla caratterizzati e tutto è lasciato in superficie. Non ci si spiega perché avere un bravo attore come Pitt, imbruttito ad arte nel fisico, e poi fargli fare la stessa espressione per tutto il film. Anche i rapporti tra i vari componenti dell'equipaggio sono stereotipati con la recluta che viene presa di mira all'inizio e poi adottata.


Dispiace per la resa finale perché alcuni spunti che facevano ben sperare c'erano. Il considerare il carrarmato come casa e il ripetersi come un mantra da parte dei protagonisti che la guerra è il miglior lavoro. Da questo film non si pretendeva di rivoluzionare il genere ma almeno di rispettarne i canoni. Siamo ben lontani dai capolavori che hanno fatto delle pellicole di guerra spesso dei cult movie. A dire il vero qua siamo lontani anche dalla sufficienza.




Al Barbone

sabato 20 dicembre 2014

MAGIC IN THE MOONLIGHT


Regia: Woody Allen
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 97'
Attori protagonisti: Colin Firth, Emma Stone

A quel piccolo ometto di Woody Allen è impossibile volere male, a maggior ragione quando ci si rende conto che per lui fare film è davvero tutto, anche leggendo alcune sue piccole interviste. Quindi l’appuntamento annuale con un film del genio newyorkese è ormai una tappa fondamentale per ogni appassionato che si rispetti. Dopo alcuni passi falsi, Allen è tornato l’anno scorso con Blue Jasmine (che abbiamo recensito ai tempi), un film abbastanza riuscito e anche molto amaro. Quest’anno ci porta nel 1928, nel Sud della Francia, dove Stanley (interpretato da Colin Firth), un famosissimo illusionista, viene incaricato di smascherare una giovane sensitiva di nome Sophie, interpretata da una splendida Emma Stone.


C’è da dire innanzitutto che la prima cosa che colpisce è l’estremo gusto fotografico che ci accompagna per tutta la durata, piccoli quadri in movimento si susseguono sequenza dopo sequenza, affascinando e ammaliando. In questa cornice Allen ripropone diversi temi a lui molto cari, come il rapporto con Dio e la fede in generale, il rapporto con la filosofia, il tutto filtrato con il solito approccio nichilista che è la spina dorsale di gran parte delle pellicole di Allen. In questo lungometraggio, grazie all’ottimo e sornione Colin Firth, ci porta nei meandri di una ricca famiglia della Provenza, in evidente crisi d’identità, che cerca appiglio nella magia, nel paranormale, mostrandoci una borghesia spaesata e senza effettivi punti di riferimento. Stanley fa da contraltare con la sua ironia tagliata con l’accetta, cercando di far crollare i castelli di carta di tutti coloro che lo circondano. L’incontro con la giovane sensitiva, però, farà emergere lati della sua personalità che non poteva immaginare di possedere, incominciando una ricerca interiore che lo porterà a rivedere e a rivalutare in negativo tutto ciò a cui aveva creduto fino a quel momento e, di fatto, a farsi trasportare dall’inaspettata bellezza della vita.


È un film liberatorio, dove Allen opera un'ennesima catarsi, trasportando sé stesso e le sue idee all’interno del personaggio principale (escamotage utilizzato molto spesso, basti pensare, parlando di suoi film più recenti, al Boris di Basta che funzioni), senza aggiungere nulla di nuovo al suo percorso, perché, come già detto, sono temi quelli affrontati qui già setacciati per bene in passato dal regista, ma che vengono proposti con una genuinità tale che non si può non provare un’immensa stima per questo autore, che si diverte anche in questo lavoro a prenderci un po’ in giro, a depistarci, a farci credere una cosa per un’altra, a darci una nuova visione dei personaggi che verrà scardinata un attimo dopo, ma facendo prevalere i buoni sentimenti, il che non fa male. In definitiva, una pellicola riuscita, gradevole e ben scritta, di certo non un capolavoro, ma molto onesta e di classe se vogliamo. Insomma, nel bene o nel male, vedere un film di Allen, che pare essere tornato in sé dopo la cantonata To Rome With Love, non può che essere un piacere, e gli auguriamo di continuare a fare film per altri cento anni.


Martin Scortese

mercoledì 17 dicembre 2014

GONE GIRL


Regia: David Fincher
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 149'
Attori principali: Ben Affleck, Rosamund Pike

Nick (Ben Affleck) torna a casa il giorno dell'anniversario di matrimonio senza la minima idea di cosa regalare alla moglie, che però sembra scomparsa nel nulla. Anche se preoccupato Nick non sembra sorpreso, sa che il matrimonio è giunto ormai alla fine e conosce benissimo il forte temperamento di Amy (Rosamund Pike). Inizia un'indagine personale che getta una nuova luce sul suo matrimonio.


Da Zodiac in poi, David Fincher ha in sostanza girato lo stesso film. Lunghe “parti” di narrazione interrotte da piccole scene, quasi degli sketch che fanno da snodo. Momenti topici sottolineati dal fantastico lavoro di Trent Reznor (in coppia con Fincher solo negli ultimi tre e con The Social Network vincitore dell'Oscar per la migliore colonna sonora nel 2011). I toni si alzano. I personaggi dopo ogni svolta sono sempre un po' cambiati, sempre meno ottusi, sempre più aperti a considerare ogni eventualità dell'inchiesta. Fincher, che nella sua carriera ha sempre avuto modo di sperimentare generi e stili s'è come standardizzato. Il metodo, dobbiamo dirlo, funziona. Anche perché a quest'impianto si va ad aggiungere un grandissimo gusto per scenografia e fotografia. Una grande cura per i personaggi secondari, tutti distinguibili e tutti con dietro una storia di vita fatta per essere esplorata. Ogni sequenza è sempre ricca di particolari, di gesti che contribuiscono a rendere credibile il mondo creato nei suoi thriller.



A tenere in piedi quest'ultimo lavoro è però solo la struttura. La performance dei due coniugi Affleck e Pike, fa in modo che il film fili liscio e incuriosisca (quasi) fino alla fine. Affleck è distratto, ironico e superficiale. Non sembra mai interessato alla sparizione della moglie fino a quando il fatto non lo tocca in primissima persona. È una zona grigia tra thriller e commedia che Affleck interpreta benissimo. La voce della Pike invece è sempre fuori campo, anche quando non sembra. È robotica, è eccessivamente controllata. È fastidiosa. Non è possibile recitare così. Le nostre perplessità vengono chiarite a metà film, quando la vicenda si mostra per quella che è. Evitando di anticipare troppo possiamo dire in modo abbastanza obbiettivo che è da questo momento in poi che la storia non tiene. Non c'è crescita, non c'è consapevolezza. Tutto viene “mostrato” così com'è e niente ci viene spiegato. Sembra che Amy agisca così dalla culla e che i suoi genitori siano due perfetti idioti. Il poliziotto incarna il classico cliché della lesbica in uniforme, la donna con le palle cinica con una schiappa d'aiutante pronto a dire banalità. Entrambi non si capisce però cosa minchia facciano per tutta la durata dell'indagine. Neil Patrick Harris è una barzelletta. Manca solo la collezione di dvd porno per vedere Barney Stinson sullo schermo. Gli ultimi minuti fanno quasi sorridere. Con una prima soluzione dell'indagine a cui si deve credere per fede e un finale confuso e senza giustificazione.


Il film vince perché grottesco, perché ironico. Vince se vogliamo vedere in Gone Girl una storia kafkiana, dove non è permesso fare domande. Questa lettura (forse un po' forzata) ci viene in parte suggerita dal contrappunto musicale di Trent Reznor, molto più discreto rispetto ai lavori precedenti (molto meno Nine Inch Nails). La sua musica non incalza mai perché non può (la storia non riesce a svoltare ma solo a contraddirsi). Reznor con una magia riesce a dare un minimo di coerenza al delirio. Trasforma questa lunga serie di contraddizioni in sogno.





Isaia Panduri

lunedì 15 dicembre 2014

JOHN WICK


Regia: Chad Stahelski
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 101'
Attori principali: Keanu Reeves, Willem Dafoe, Michael Nyqvist

 “Una volta gli ho visto uccidere tre uomini in un bar... Con una matita.”

Ecco chi è e cosa è John Wick, nient’altro che un ex killer che torna in azione facendo piazza pulita, niente di meno che un buon film il cui script è rimasto nel cassetto per troppo tempo, quasi due anni. Messo così, sembra un banale sparatutto come altri mille ma in realtà c’è molto di più.


John Wick pesca selvaggiamente dal cinema di Melville e dai suoi antieroi, coi loro codici d’onore che ne contraddistinguono non solo il comportamento ma anche il linguaggio, il modo di muoversi e di relazionarsi con “gli altri”. Tutte caratteristiche che Derek Kolstad è riuscito a riportare in questo hard boiled ben diretto da Chad Stahelski che a sua volta è riuscito a disseminare in questa pellicola tutta una serie di indizi che chi conosce film come Le Samouraï o Le Cercle Rouge noterà all’istante.


I personaggi si muovono all’interno di una società criminale ben organizzata, con i suoi punti di ritrovo, le sue leggi e anche una sorta di moneta interna. Tutto ciò non viene spiegato, viene solo mostrato senza alcuno straccio di giustificazione. John per godere di alcuni servizi speciali pagherà con particolari monete d’oro e farà lo stesso per entrare in certi bar o per prendere da bere e il motivo non ci interesserà minimamente, lo fa perché è quello il mondo in cui vive e va benissimo così. Non abbiamo premesse ma solo fatti.


La storia è a dir poco banale, con delle premesse apparentemente al limite dell’idiota. John faceva il killer, era il migliore sulla piazza e si è ritirato per amore della propria donna ma il figlio di un boss russo combina una cazzata che lo obbliga a rivestire i panni di Baba Yaga, Boogeyman, l’Uomo Nero, come lo chiamano tutti quelli che lo conoscono, ovvero tutti a parte questo rampollo russo interpretato da un sempre sfortunatissimo Alfie Allen (i fans di Games Of Thrones sanno il perché dello “sfortunatissimo”). Perché un aspetto su cui bisogna puntare l’attenzione è che TUTTI conoscono John Wick, lui è la leggenda, il migliore. Ciò contribuisce a strappare più di una risata in più di un’occasione facendo morire dalla curiosità di sapere cosa diavolo abbia potuto fare John per godere di un rispetto così smisurato in ogni dove.


Il film è girato sapientemente e non poteva essere altrimenti. Se ai più i nomi di Stahelski (il regista) e Leitch (il produttore principale insieme a Eva Longoria) non dicono nulla, basti sapere che il primo si è occupato delle scene di combattimento di The Matrix ed è colui che ha sostituito Brandon Lee in The Crow nelle scene di combattimento e dopo che successe il fattaccio, il secondo ha curato invece le scene di combattimento di Fight Club, Mr. & Mrs Smith e Troy. Quindi parliamo di gente che per la prima volta sta alle redini ma che ha parecchia esperienza. Infatti il risultato è più che notevole.


Il cast conta tanti bei nomi. Dal già citato Theon Greyjoy, all’instancabile Willem Dafoe, passando per il protagonista, un adattissimo Keanu Reeves, con tanti comprimari d’alto livello come Michael Nyqvist e Ian McShane. Da notare inoltre la partecipazione di tanti attori e attrici provenienti dal mondo delle serie TV che se la sono cavata bene, vedi Lance Reddick (The Wire, Fringe e altro). La scelta del cast risulta particolarmente azzeccata perché i personaggi in alcuni casi sono stati cuciti addosso agli attori. Inizialmente John Wick doveva essere un sessantenne, quando però Reeves ha dato piena disponibilità il ruolo è stato riscritto per “qualcuno non grande letteralmente ma che avesse un passato importante nel mondo dei film”, dice uno dei produttori. Allo stesso modo Dafoe fa la parte del killer della vecchia guardia, uno di quelli dal solido passato e che non ha mai sbagliato un colpo.


In definitiva, se credete che questo sia l’ennesimo filmaccio girato male, scritto peggio e interpretato da cani con frasi a effetto ed esplosioni alle spalle del protagonista, fatevi il favore di ricredervi. John Wick è un film che ammicca ai noir francesi degli anni settanta, girato bene e che riesce a intrattenere molto piacevolmente per un’ora e venti con delle scene di combattimento molto realistiche, il tutto con degli ottimi attori che si riempiono di mazzate. Consigliatissimo.





Ingmar Bèrghem

martedì 2 dicembre 2014

V/H/S: VIRAL


Regia: Nacho Vigalondo, Marcel Sarmiento, Gregg Bishop,
Justin Benson, Aaron Scott Moorhead
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 81'
Attori principali: Emmy Argo, Emilia Ares Zoryan, Justin Welborn

La saga di VHS è una delle cose più interessanti successe all'horror negli ultimi anni. Se REC è un esempio di perfetto found footage, originalissimo ma in un certo senso capace di serietà. Un girato che sembra amatoriale ma non opera di uno sprovveduto. I vari VHS hanno spinto un po' più in là il limite tra quello che la tecnica può e non può permettersi. Sin dal primo episodio hanno introdotto una certa dose di erotismo, di ironia e autoironia. Hanno strizzato l'occhio all'internet dei revenge porn, dei film gonzo e di YouReporter. Toccando punte altissime di reportage giornalistico in Safe Heaven.



È proprio internet a entrare nel mirino del terzo capitolo della saga. È evidente sin dalla cornice quanto il progetto sia diventato più ambizioso ( una grandiosa raccolta di video mostruosi destinati a diventare virali. Mostruosità che infetterà poi gli utenti della rete). Nel primo racconto, Dante the Great (la storia di Dante, un illusionista che deve la propria fortuna a un mantello magico) si sperimenta il mix di mockumentary e fiction canonica. Idea audace ma il risultato è più che incerto. La fusione delle due tecniche fa sembrare l'episodio più un trailer che un racconto compiuto. Meglio riuscito è Parallel Monsters, l'idea di un ragazzo che scopre una versione mostruosa della propria realtà è surreale. Viviamo il suo stesso incubo, un incubo che incuriosisce e non ripugna. L'idea dietro Bonestorm invece non si capisce quale sia e non si capisce in che modo la storia dovrebbe metterci paura o sorprenderci. Quattro ragazzetti fanno skate in Messico e per sbaglio evocano una super squadra di zombie.


Il gioco della saga VHS è quello di darti qualcosa di appetitoso e di togliertelo da sotto il naso proprio mentre stai per gustartelo. Quest'intuizione ha contribuito a creare storie che intrigano, che non stancano. Ne vorresti una dopo l'altra all'infinito. Qui però si esagera. Il migliore episodio viene rovinato da una caduta di stile voluta e per questo forse fastidiosissima. Molte bellezze anche qua, ma manca del tutto la carica erotica di alcune vignette precedenti. La cornice è troppo elaborata e si scopre troppo presto. La funzione anticipatrice della pellicola rovinata è poco funzionale e l'effetto glitch risulta freddo e superfluo. Aspettando di poter vedere Gorgeous Vortex (episodio a quanto pare rimosso, e dalle foto trapelate in rete anche molto interessante) noi continuiamo a tifare per il progetto VHS. Da qui in poi però con le dovute riserve.




Isaia Panduri

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